Gli ultimi, versioni e documenti


la mente del fanciullo è anzitutto e sempre fantasiosa
Vito Pandolfi
(appuntato a mano sulla sceneggiatura)


Gli ultimi è il primo incontro di David Maria Turoldo e Vito Pandolfi con la produzione cinematografica sebbene da tempo il cinema sia un interesse per entrambi. Turoldo ha il primato di aver costituito il primo cineforum a Milano, dal 1951 parte delle attività della Corsia dei Servi, e dieci anni più tardi a Udine presso la Basilica delle Grazie, e Pandolfi collabora da tempo agli esperimenti etnografici del cinema documentaristico di Vittorio De Seta.
La complessità di realizzazione di quell'impresa, come entrambi definiscono più di una volta la realizzazione del film nella loro corrispondenza, lascia tracce vistose nelle numerose stesure della sceneggiatura e nei ripensamenti in fase di montaggio. I numeri lo constatano. Gli ultimi doveva essere il primo episodio di una trilogia che vedeva in seguito la partenza di Checo per il Canada e infine il suo rientro in Friuli. La fonte ispiratrice è il racconto di Turoldo "Io non ero un fanciullo". A questo canovaccio mettono mano due sceneggiatori, lo stesso Pandolfi e Mario Casamassima. Da una lettera di Turoldo a Pandolfi del 24 febbraio 1961: "... Sto lavorando in questo campo con un regista molto amico di Hemingway. Ha lavorato specialmente all'estero. Si chiama Casamassima; egli ti conosce e ha molta stima di te. Ora è invitato in Russia direttamente dal capo di tutta la cinematografia dell'URSS. Ma per tutte queste cose bisognerebbe ci parlassimo a voce".
Questa collaborazione, inizialmente a sei mani, produce tre trattamenti che prendono le mosse da due soggetti firmati da Turoldo. Al termine della fase di scrittura rimangono tre diverse sceneggiature con varianti anche significative. Dopo la presentazione del film alla selezione per il concorso della Mostra del Cinema di Venezia del 1962 e il successivo rifiuto della commissione, Pandolfi mette mano al montaggio licenziato assieme a Turoldo e prepara una nuova versione poi distribuita nelle sale.
Oltre ai numeri, anche i titoli e i nomi dicono del lavorio di scrittura e delle riflessioni sullo spirito del film.
Bepo, lo spaventapasseri; Non era un fanciullo; Il fanciullo e lo spaventapasseri; Solo contro il mondo; Il pastorello e la sua ombra; Vita dei campi. Infine, come racconta Riedo Puppo, in osteria al termine delle riprese quotidiane riceve l'abbraccio liberatore di Turoldo alla sua proposta de Gli ultimi. Per puro gioco di rimandi e analogie, è interessante notare come il titolo del soggetto del successivo film diretto da Pandolfi sia I primi, una storia analoga a quella ambientata in terra friulana ma questa volta fra i braccianti dell'agro pontino, Provincia di Latina. E come non ricordare sempre per gioco il titolo della notissima serie fotografica che Mario Giacomelli proprio negli anni in cui si gira Gli ultimi dedica ai "pretini" nella neve, Io non ho mani che mi accarezzino il volto, tratto da una poesia di Turoldo.
Suggestioni che danno il segno dell'importanza di Turoldo nella temperie culturale del momento e dicono delle natura sperimentale del suo progetto cinematografico. Anche i nomi dei protagonisti del film registrano le diverse prospettive prese in considerazione. Il Checo del racconto originario, diventa Bepo, poi Toni (Mario Casamassima) e infine torna Checo. Josette è a lungo Alfonsina, come Zuan il padre di Checo è a lungo Simone (agli esegeti capire se eventualmente Pietro o il Cananeo) e la madre di Checo prima di essere Anute è Polonia o Apollonia (un omaggio al maestro Mario Apollonio?), ma nei ciak dei provini si trova indicato Mariute.
Al di là delle suggestioni, è ancora oggi possibile rintracciare nei documenti di produzione e nelle diverse stesure della sceneggiatura, ora disponibili sul sito della Cineteca del Friuli, l'ossatura principale del film che da subito è costituita dai pochi episodi e ricordi autobiografici narrati da Turoldo in "Io non ero un fanciullo", intorno ai quali di volta in volta si innestano con propositi diversi altri spunti narrativi fra loro anche molto diversi e che solo in parte trovano spazio nel racconto del film. L'immedesimazione con la figura dello spaventapasseri e i relativi incubi favoriti dall'appellativo con cui non solo i compagni lo deridono; le aspettative riposte nella scuola dove nel film, al contrario del racconto, si vede Checo primeggiare; il solitario lavoro nei campi; l'umiliazione dell'allontanamento dal pranzo della famiglia benestante e l'accoglienza in chiesa; l'episodio delle pecore che sconfinano dal terreno demaniale e il conseguente gesto di ira del padre che lo appende allo spaventapasseri. Infine, la ribellione a questo destino e il riscatto nella consapevolezza.
Nei due successivi soggetti scritti da Turoldo, a questi iniziali episodi se ne affiancano altri. Sul versante della condizione di ultimi della terra, si inserisce la vicenda del fratello Roberto che lavora e muore in miniera in Belgio, il rifiuto dei padroni ad affittare la terra, la necessità di ipotecare la casa e di ritirare Checo da scuola affinché aiuti nel lavoro dei campi. All'episodio delle pecore si aggiunge quello del loro avvelenamento e nuovamente l'ira del padre. Il finale vede Checo emanciparsi, dopo la ribellione dell'abbattimento dello spaventapasseri, attraverso il lavoro, in un caso si allontana su di un trattore, nell'altro, salendo a potare gli alberi come nel film.
Nel successivo trattamento a firma di Turoldo, la storia si articola ulteriormente. Per la prima volta, appare l'entrata in paese del carro con il povero Nardin morto. Fa il suo ingresso anche il gioco del muduc prima spontanea aspirazione di Checo ad aiutare il padre. Si ipotizzano alcune trame che poi non sopravvivono: la gelosia di Checo nei confronti della maestra che si vede con un giovane che nelle versioni successive diventa di volta in volta, amministratore, casaro, esattore, gerente. Oppure quella relativa alla figura di Peter dal fuc, maestro di fuochi d'artificio con un naturale ascendente sui ragazzi. Sullo sfondo della sequenza di Polonia che taglia i capelli a Checo si consuma l'incontro fra Zuan e l'amministratore con la richiesta di aumento dell'affitto. Il finale è completamento diverso, vede Checo allontanarsi in canoa con gli amati disegni sotto braccio verso il mare lungo il Ledra e sullo sfondo il capobanda dei ragazzi del paese, che lo ha deriso senza pietà, guardarlo incredulo allontanarsi. Poco prima Checo sfogandosi con lo spaventapasseri prima di abbatterlo gli aveva gridato: "Me ne andrò da questo paese. Andrò a sfamare tutti i ragazzi poveri nel mondo".
Lo spirito che sottende questo finale, nelle successive stesure, darà adito a soluzioni narrative che rappresentano l'anelito di apertura di Checo verso l'esterno, fuori dal paese, in particolare verso il mare, forse il germe dell'episodio della fuga lungo il Tagliamento presente nel film.
Ma l'aspetto più importante di questo trattamento è lo sviluppo del rapporto fra Checo e il suo alter ego, lo spaventapasseri. Si arricchisce di diversi momenti di ricomposizione dei rapporti personali, anche con i compagni, ora resi possibili da uno stato d'animo non più disperato, embrione del successivo processo di emancipazione che si compie nel film. Compaiono ad esempio le scene di gioco e della bevuta al mulino.
Con il successivo trattamento a firma di Mario Casamassima, di cui peraltro non si dispone della parte finale, entrano in scena alcuni cambiamenti fra cui i più significativi i dialoghi in friulano e alcune insistite sequenze su di un comizio politico, sulle discussioni in osteria e durante il sabato fascista. Si ha l'impressione che in questa versione la componente politica emerga su quella sociale motivo forse per cui si perdono le scene relative al padronato e all'ipoteca come anche quelle più intime di Checo non più alle prese con le paure e i gli incubi che poi si vedranno nel film.
Nelle due successive sceneggiature di Pandolfi, le più vicine al momento delle riprese, si assiste a un frenetico avvicendarsi di episodi che entrano ed escono dalla trama. Mancano completamente le vicende scolastiche come anche le fantasie di Checo, novello Giotto, scoperto a disegnare nei prati da Cimabue. Rientra arricchita di nuovi episodi la vicenda di Peter dal fuc (emigrante che torna dal Canada) e in particolare la sequenza della prova notturna dei fuochi d'artificio in occasione della festa della Domenica delle Palme. Una sequenza notturna, in campagna, alla presenza del sindaco e degli altri amministratori i cui volti sfigurati dalle luci dei fuochi impressionano e spaventano Checo. Questa scena contribuisce anche a dilatare lo spazio dedicato alle scene di carattere più intimista che descrivono lo stato d'animo di Checo. In questo senso si può vedere anche l'amplificarsi del motivo della gelosia nei confronti della maestra.
Il personaggio di Peter dal fuc e la gelosia per la maestra spariscono però definitivamente nella seconda sceneggiatura. Ritorna invece l'aspirazione al lontano, al mare con un finale singolare. Dal momento che la chiesa è momentaneamente incustodita, Checo invita il suo amico "piciul" a salire sul campanile a vedere l'effetto straordinario dell'ultimo raggio di sole della giornata, il raggio verde, di cui ha letto in un libro. A questa scena però segue il rientro a casa e la notizia della morte del fratello con cui si chiude il film, forse troppo priva di speranza e di riscatto per incontrare le aspettative di Turoldo. Un'altra sequenza particolare è quella che vede la macchina da presa indugiare su Checo perso nei suoi pensieri: "(Checo) segue il volo di una foglia che plana, il fumo che serpeggia da un camino, l'onda delle tegole su di un tetto sgangherato. E' solo: con il suo cielo. Non odia, non ama. Non sente". Gli influssi della poetica di Antonioni (si pensi al celebre finale de La notte, 1961) che proprio in quell'anno gira il capitolo conclusivo della cosiddetta "trilogia esistenziale", l'Eclisse, sembrano per un attimo affascinare Pandolfi, più che Turoldo.
Con queste trame, indecisioni e molti appunti a mano si arriva alle riprese al termine delle quali si conferma la volontà di Turoldo di costruire una storia incentrata sull'articolazione dello sviluppo psicologico di Checo come nella migliore tradizione del Bildungsroman. L'intimismo perseguito da Turoldo ha una natura più verista e lirica rispetto alle poetiche della cosiddetta "incomunicabilità" dell'epoca. La cucina, è scritto nel soggetto, è un cubo di calce annerito; il padre, un blocco di fatiche. Sono gli incubi, le visioni e le fantasie di Checo a interessare Turoldo, la forza della solitudine e della diversità a vincere sulla durezza della vita e anche della miseria. In questo senso si può leggere l'aggettivo invernale con cui Turoldo nel bell'incontro con Andrea Zanzotto (fra gli extra del DVD) definisce il suo film. Notturno e fantastico aggiunge Giorgio Placereani nella sua presentazione, e analizzando "l'articolazione nervosa per folgorazioni ellittiche per scorci e stacchi netti del montaggio" (Licio Damiani), si coglie la modernità dell'esperimento fino alla prefigurazione di quei risultati che di lì a poco, negli anni '70, connoteranno il cinema italiano come un "cinema di metafora", ellittico, appunto. Anche la scelta della lingua italiana (sempre che la si possa considerare tale) è spiegata da Turoldo alla stregua di una figura poetica che dal particolare (la vicenda friulana) possa raggiungere l'universale, la condizione di tutti gli ultimi della terra.
Rileggendo a ritroso la genesi del racconto, emerge con chiarezza che l'andirivieni di episodi e spunti narrativi nelle diverse sceneggiature è il risultato della tensione fra le spinte sociali e politiche vicine a Pandolfi e quelle umaniste di Turoldo. Anche i titoli provvisori ci paiono una chiave di lettura di questa dialettica: da una parte i campi, la miseria, dall'altra la trasfigurazione di questa condizione nella tensione verso il riscatto e la consapevolezza personale del fanciullo/spaventapasseri. Sembra di vedere Pandolfi che blocca gli slanci di Turoldo verso l'infinito (la canoa lungo il Ledra verso il mare aperto) e Turoldo contenere le descrizioni di carattere sociale, l'ipoteca, i padroni che non affittano. E forse invece è proprio la collaborazione fra i due a dare voce a un esperimento significativo dell'epoca.
In fase di montaggio non si registrano particolari cambiamenti, alcune sottolineature vengono considerate superflue per l'economia del racconto: la comparsa di Cimabue, un elemento in costume in un film girato interamente dal vero; si accorcia la sequenza della vendita della mucca e scompare Villa Manin, anche questa forse ritenuta fuori contesto; la sequenza della richiesta di aumento dell'affitto, forse troppo lunga; l'episodio dell'offerta di una fetta di pane e marmellata a Checo che anticipa l'umiliazione della cacciata dal pranzo dei vicini e infine un ultimo indugiare sulla ritrovata armonia con i compagni dietro l'alto muro del cimitero (un orto in sceneggiatura).
Non sono variazioni significative come non lo sono gli episodi descritti nelle diverse sceneggiature che non vengono girati e di cui non si è detto in precedenza: il litigio fra il parroco e il vicario, il momentaneo ritorno del fratello dal Belgio che regala una lira a Checo (scena sostituita dalla più efficace sequenza dei soldi vinti al gioco del muduc con cui compra il sigaro al padre), la pesca notturna con i compagni e il rientro dalla fuga lungo il Tagliamento accompagnato da una camionetta dei militari.
Sono invece più importanti i tagli adottati da Pandolfi dopo il rifiuto da parte del Festival di Venezia e che producono la versione conosciuta finora. Vengono eliminati alcuni incubi e visioni dello spaventapasseri che tormentano Checo come anche la sequenza del rispecchiamento dei due nell'acqua. Una sorta di tentativo di riportare a una dimensione più realista e meno fantastica la trama del film. Va in questa direzione anche l'idea espressa da Pandolfi per lettera a Guido Aristarco (fra i documenti raccolti da Sabrina Baraccetti cui l'intera ricerca è profondamente debitrice), di inserire un commento fuori campo a sottolineare in alcune sequenze, in modo forse un po' retorico, quanto amaro sia il radicchio, il duro lavoro dei campi, l'amicizia con Josette, la rabbia del padre e il mondo di chi sta bene.
Nel senso della sottolineatura, va segnalato anche il finale alternativo, nuovamente un commento fuori campo (lo si può trovare fra i contenuti speciali del DVD). E' una poesia dell'amico emigrante Tarcisio Gubiani, letta da Turoldo (da voce di Zuan a quella di co-regista) che accompagna l'ultima sequenza della potatura degli alberi.

Il film che poi viene distribuito in sala nel 1963, ovvero la versione più breve, è stato restaurato nel 2002 dalla Cineteca del Friuli e curato da Cristina D'Osualdo a partire, anche per il sonoro, dal negativo camera originale dal quale si sono ottenuti nuovi elementi di conservazione, un internegativo e un interpositivo, e una nuova copia positiva 35mm.
Il restauro della versione inedita appena ultimato presso il laboratorio Cinedia di Parigi e curato da Camille Blot-Wellens è partito invece dal duplicato positivo originale (lavanda) che era conservato con il montaggio originale presentato al Festival di Venezia. Dall'interpositivo, è stato stampato un nuovo duplicato negativo al fine di preservare il film, incluse le sequenze tagliate, mentre il lavanda originale è stato digitalizzato in full-HD e il sonoro a 24-bit. Si è poi intervenuti sul master digitale per ripulire l'immagine da alcuni problemi della pellicola risalenti alla fase di stampa nel 1962. Alla fine del rullo 5 è stato tolto un filamento che attraversava per molti fotogrammi l'intera inquadratura e nel rullo 9 sono state eliminate diverse macchie bianche dovute alla polvere rimasta imprigionata nella macchina stampatrice.
Presso lo studio Pianeta Zero di Trieste si è in seguito provveduto, con la supervisione di Giulio Kirchmayr e la preziosa collaborazione di Elio Ciol, all'operazione di correzione digitale del colore (grading) e allo stesso tempo al lavoro di ripulitura dell'audio prima di finalizzare il master DVD.
I nuovi elementi digitali risultanti dall'intervento di preservazione sono un hard drive, un nastro magnetico LTO e un HD-Cam SR per la conservazione delle sequenze di file TIFF 16 bit RGB (per l'immagine), e sequenze di file WAV 48 Khz 24 bit, per l'audio. Per la proiezione si è prodotto un master Blu-Ray e a breve verrà codificato un pacchetto DCP.
Il duplicato positivo originale (lavanda) di partenza, non essendo destinato alla proiezione, ha un'immagine full-frame i cui bordi non sono ritagliati. Per riprodurre l'effetto della proiezione, si è deciso oggi di inserire un mascherino come si fa normalmente su una copia positiva da proiezione. Il film è presentato nel suo formato originale di proiezione 1,66:1 e per rispettarne l'integrità dell'immagine non è stato possibile rimuove alcune imperfezioni visibili ai bordi dei fotogrammi.
A distanza di dieci anni dal precedente intervento di restauro, tutti i materiali montati delle due versioni del film sono stati preservati e si è provveduto a digitalizzare la parte più significativa dei 7.000 metri di pellicola dei materiali di lavorazione lasciati in deposito nel 1998 alla Cineteca del Friuli da Carlo Feruglio, liquidatore delle Grazie Film.

Come si è detto, il progetto originario di Turoldo prevedeva una trilogia che seguisse nel tempo i passi di Checo. I due ultimi capitoli però non hanno mai visto la luce. Ci piace credere con gli amici del Centro Espressioni Cinematografiche e di Cinemazero che questi successivi interventi di conservazione, restauro e nuove presentazioni in sala del film e dei materiali inediti potessero prolungare nel tempo l'attenzione e la conoscenza del film a parziale completamento dello spirito originario del progetto di Turoldo.

Luca Giuliani