Intervista con Michel Ciment
Relazione di Giuseppe Lippi
Incontro con Alexander Walker

 

LE GUERRE DI STANLEY KUBRICK
Intervista a Michel Ciment di Sergio Triolo
Ad un anno dalla morte di Stanley Kubrick, incontro a Gemona, al vernissage della mostra "Stanley Kubrick: verso il 2001", Michel Ciment, redattore della celebre rivista francese di critica cinematografica Positif, docente di civiltà americana alla Sorbonne, nonché estensore della biografia ufficiale del regista newyorchese, pubblicata in Italia alcuni mesi fa per la Rizzoli e ampliata rispetto all'edizione francese del 1981. "The Killing – dichiara Ciment – mi fece scoprire Kubrick. Fu un film rivelazione per la critica, in quanto permise di osservare attraverso un noir il vero volto della società americana. I due film che seguirono, Orizzonti di gloria e Spartacus, gli valsero la bollatura di cineasta di sinistra. In realtà, racchiudere Kubrick in una categoria politica è riduttivo." Per chi ama Kubrick, Michel Ciment è una vera miniera di notizie, di aneddoti accumulati in più di trent'anni di amicizia: "Lo conobbi – continua Ciment – grazie ad un'intervista in occasione dell'uscita di 2001: A Space Odissey; in realtà fu difficile farlo rispondere. Capii in fretta che piuttosto egli amava rispondere alle proprie domande, oppure interrogare chi lo intervistava, chiedendo giudizi su film di altri cineasti".

Quasi tutti i film di Kubrick sono tratti da romanzi. È un omaggio dell'occhio alla scrittura o una semplice fonte di soggetti?
Non credo sia un omaggio dell'occhio alla scrittura. La letteratura è semplicemente fonte di ispirazione per la sceneggiatura. Kubrick ha scritto solo due sceneggiature - Fear and Desire e Killer's Kiss - entrambe agli inizi della carriera. Successivamente le ha sempre considerate molto deboli, primitive. Si può tranquillamente affermare che dopo queste prove non ebbe più fiducia nella propria immaginazione. Confidando invece nell'immaginazione letteraria decise di lavorare partendo da opere già esistenti. Pur essendo molto fedele nella traduzione filmica dei libri, al tempo stesso è stato sempre capace di piegare l'opera letteraria alla sue fantasie visuali.
Per capire davvero Kubrick, è necessario comprendere che fu innanzitutto un fotografo. E un fotografo dipende dalla realtà, da una realtà. Kubrick aveva bisogno di aggrapparsi alla realtà: la realtà di un libro, della documentazione. Credo che all'origine di questa necessità ci sia la fotografia. In questo senso si può affermare che Kubrick sia all'opposto di Fellini, il quale rappresenta la libertà dell'immaginazione.

Barry Lyndon, Arancia Meccanica, Eyes Wide Shut, solo per citare alcuni film: in che modo la musica, la pittura e le arti in genere hanno influenzato l'opera di Kubrick?
Tutti i grandi registi, fatta eccezione oggi forse per la nuova generazione europea, sono stati ispirati da qualche forma d'arte. Il cinema è la sintesi di tutte le arti: del teatro, della musica, della letteratura, della pittura, dell'architettura. Pur non amando i dogmatismi, anzi ogni suo film reca un proprio pragmatismo, Kubrick non è differente dagli altri.
Ogni suo film ha regole proprie e impone delle precise soluzioni di esecuzione. È il caso di Barry Lyndon ad esempio, film storico ambientato nel diciottesimo secolo. Oggi noi conosciamo questo periodo principalmente grazie all'arte. La ricerca che fece fu quindi condotta sulla pittura e sulla musica dell'epoca, anche se in alcuni casi non manca il ricorso a delle distorsioni consapevoli (Schubert infatti non era del XVIII secolo). Ciò che conta è la ricerca del preciso contesto culturale dell'epoca.
All'opposto sta Full Metal Jacket. In questo caso l'esperienza generalmente condivisa del Vietnam si fonda sulla fotografia, sull'attualità cinematografica, sui documentari. Partendo da questi documenti Kubrick condusse la propria ricerca sforzandosi di restituire un'immagine del Vietnam che non si discostasse dall'immaginario collettivo. In questo processo, al contrario di Barry Lyndon, le immagini subiscono una sorta di stilizzazione, un lavoro formale che parte dalla documentazione del reale.
Ancora. Nel caso di Arancia meccanica è il futuro prossimo che si esplica. La fonte di ispirazione è la pop art, la decorazione futurista, il design più innovativo, elementi che quasi anticipano i tempi.
Dunque non è possibile classificare le opere di Kubrick con delle teorie generalizzanti. È Bresson che ha una concezione dogmatica del cinema che applica a tutti i suoi film. Ma Kubrick non è Bresson. Ogni film in Kubrick genera la propria estetica.

Credo si possa affermare che Kubrick abbia esplorato tutti i generi. Tra tutti ne prediligeva qualcuno? E soprattutto, come li ha interpretati?
Se si escludono la commedia musicale e il western, Kubrick ha esplorato tutti i generi. Eppure non credo avesse un genere preferito. Oltre ad essere un fotografo, Kubrick fu un raffinato cinéphile alla maniera di Godard e di tutti quelli appartenenti alla Nouvelle Vague. È stato un regista nutritosi con migliaia di film d'autore, Chaplin, Laurence Olivier, De Sica. Si sentiva in competizione con i grandi del cinema e tentava sempre di superarli. Stimolo irresistibile alla competizione erano le imperfezioni che scovava nei film altrui. Quando realizzava un film di genere, poniamo di fantascienza, guardava tutti i film di fantascienza a sua disposizione per capire cosa ci fosse di poco convincente, quali fossero le stilizzazioni banalizzanti che restituivano una sensazione di falso. Per esempio, guardando Metropolis si ha l'impressione che non ci si trovi di fronte alla realtà del futuro. Ecco quindi giustificato 2001: Odissea nello spazio, grazie al quale abbiamo davvero la sensazione di trovarci nello spazio, di essere un cosmonauta. È l'idea della fotografia che ritorna, della verità del momento. Riuscire a far avvertire la verità del momento della ripresa fotografica, come se realmente quella ripresa fosse avvenuta nello spazio.
Quando Kubrick raggiungeva la consapevolezza di aver toccato una sorta di limite perfetto, allora sentiva il suo compito esaurito e veniva colto dal bisogno di gettarsi in un'altra diversa impresa.

Il Novecento è stato il secolo delle guerre mondiali, della bomba atomica. Qual è stato l'aspetto della guerra che Kubrick è riuscito più efficacemente a mostrarci?
La guerra è il soggetto di tutti i film di Kubrick. Ogni genere gli ha sempre fornito il pretesto per illustrare una guerra: la guerra di coppia, la guerra del robot e del computer contro l'uomo, la guerra di classe. C'è sempre la guerra nei film di Kubrick. Shining è la guerra, Eyes Wide Shut è la guerra. La guerra propriamente detta non è altro che la somma delle pulsioni aggressive esistenti nell'essere umano. In Kubrick la guerra si rivela come forma di pessimismo che lo induce a non credere nella bontà umana. Per lui l'uomo ha un'inclinazione innegabilmente aggressiva; la guerra non è altro che metafora della condizione umana.
Full Metal Jacket è un film senza alcuna illusione sulla guerra. Certo, la guerra può diventare spettacolo umanista dove l'uomo può essere amico dell'altro uomo; può essere spettacolo dove l'uomo diventa eroe; può essere uno spettacolo estetico, come in Apocalipse Now con la musica di Wagner. Ma in Full Metal Jacket non c'è alcuna possibilità di sfuggire all'orrore; è una situazione senza uscita. L'unica cosa che alla fine rimane, è il sentimento di Matthew Modine che dice: "Io sono vivo in un mondo di merda." La sola cosa che conta è essere vivo, non rimane altro.

In 2001 l'umanità nasce da un atto violento. Del resto molti film evidenziano la natura maligna dell'uomo: la guerra e il militarismo, la sopraffazione, la follia. La sensazione che si ricava è di diffuso pessimismo. Un futuro pacifico era per Kubrick un'utopia?
Credo che Kubrick non dica che non c'è progresso nell'umanità. La medicina, l'educazione, la tecnologia lo dimostrano. Il vero problema è che lo sviluppo tecnologico, scientifico, fondamentalmente non muta la natura dell'uomo. La società progredisce, ma di fatto l'uomo rimane fermo. Oggi l'uomo non è né più intelligente né più capace di dominare le proprie passioni rispetto all'uomo di duemilacinquecento anni fa. È questo il messaggio del Dottor Stranamore. Duemilacinquecento anni fa, se un generale fosse diventato pazzo avrebbe potuto uccidere dieci uomini con una pietra o una freccia; oggi potrebbe far saltare il pianeta intero. L'orrore del mondo moderno è la distanza sempre più vasta fra le capacità tecnologiche dell'uomo e il suo stato psichico-emozionale rimasto stazionario. Dunque le guerre diventano sempre più terribili, perché la parte animale dell'uomo è rimasta immutata e le conseguenze possono essere molto più tragiche di tremila anni fa.

Insomma, non c'è ottimismo!
Non è che Kubrick fosse irrimediabilmente pessimista, è il mondo che non consente l'ottimismo. Se si osserva il XX secolo, o se più semplicemente si guarda agli ultimi venti anni, ci si chiede: dove sono il progresso, l'utopia, l'ottimismo? Nell'analisi dell'esistente egli è stato fortemente influenzato da Freud. L'arte di Kubrick come la medicina di Freud.
Kubrick è stato un medico che ha fatto una diagnosi per mezzo dell'arte. Non è stato lui a trasmettere la malattia. L'ha semplicemente diagnosticata. Se un medico vi dice che avete un cancro, non dite che il medico è pessimista solo perché ha semplicemente constatato un dato di fatto.
Stalin e Hitler detestavano la psicanalisi. Perché? Perché le conoscenze che la psicanalisi offre permettono di analizzarsi, di controllarsi. Dunque c'era dell'ottimismo in Kubrick, un ebreo pedagogo che credeva nella conoscenza attraverso la quale voleva dare al suo pubblico una spiegazione del mondo.
Se l'uomo comprende la propria natura maligna, imparando a conoscere e dominare le proprie pulsioni, allora può darsi che ci sia una speranza di guarigione. Altrimenti non ci sarà spazio che per il peggiore e ingiustificato ottimismo.

(29 aprile 2000)


2000 e 2001
di Giuseppe Lippi
Eccoci riuniti a condividere un privilegio che pochi anni fa sarebbe parso avveniristico: parlare del 2001, data fatidica per il cinema, a metà dell’anno 2000, data fatidica per tutti coloro che anche lontanamente abbiano "il senso del futuro". Che cos’è il senso del futuro? E’ la sindrome che riguarda — da cinquant’anni almeno — chi s’interessa dell’avvenire come se fosse una forma d’arte o di pensiero. Il senso del futuro è l’angolazione che permette di vedere la realtà come in una lente anamorfica, dove tutto è come dovrebbe essere ma tutto è anche alterato, magnificato, in modo che lo spettacolo complessivo risulti perturbante. Per decenni la fantascienza cinematografica e quella letteraria hanno affinato questo guardar sottile, la capacità di radiografare un mondo ancora ipotetico; e tuttavia sembra che oggi lo stile di questo sguardo privilegiato, intelligente e un po’ veggente, sia destinato a mutare, com’è mutato il nostro rapporto con il futuro. In altre parole, saremmo immersi nel futuro fino alla gola, al punto da non riuscire più a vederlo con ironia. E se fino agli anni Settanta la sensazione che esso stesse per piombarci addosso è stata incombente, ma si è potuta contrastare con un certo distacco intellettuale (l’arte di futurologi e scrittori non è consistita dunque solo nel precipitarci dentro il futuro, ma nel darci gli strumenti per guardarlo con occhio critico), ora, in una stagione "post-moderna" di massiccia tecnicizzazione delle attività speculative, nonché di sempre maggior asservimento alle logiche produttive di ogni aspetto della vita culturale, questo non sembra più possibile. In effetti, sono in molti a pensare che la nuova sterzata tecnologica, soprattutto nel campo dell’informatica, ci offra un orizzonte così fortemente modificato, e così plasmato dalle risorse della tecnologia medesima, da aver ridotto o quasi annullato quello scarto. In questo senso, non solo saremmo dentro il futuro, ma in un futuro dickianamente ricostruito che il presente dilatato fagocita a velocità sempre più alta, tentando di annetterselo. C’è del vero in queste intuizioni, naturamente; ma anche da un futuro dickiano è concepibile emergere per avere la rivelazione di ciò che esiste "al di là", di ciò che è rimasto o che si può ancora inventare: questo è il perno su cui sono basati molti romanzi di Philip K. Dick e anche un film recente che sembra ricavato da un suo testo, The Truman Show. Guardare fuori, oltre noi stessi, oltre la simulazione: non è questo che ha fatto, magnificamente, 2001, il film epocale di cui ci occupiamo oggi? Ebbene, ecco l’operazione che dobbiamo fare ancora una volta. Cercare di penetrare i meccanismi del mondo in cui viviamo, sia che lo facciamo con gli strumenti del cyberpunk e della narrativa postmoderna, oppure con quelli di una pellicola visionaria. Sfruttare le forze dell’arte e del pensiero per impossessarci di una realtà maiuscola, non meschina, e quindi del futuro.

Nel giugno 2000 viviamo, sotto molti aspetti, in un mondo da fantascienza (anche se, dirà qualche polemista, non quella fantascienza). Non abbiamo un’efficiente stazione spaziale internazionale, tanto per dirne una; sulla Luna non siamo più tornati con spedizioni umane dopo il 1972, Marte si continua a rimandarlo di decennio in decennio. I robot sono solo nelle fabbriche e perlopiù non hanno forma umana; la macchina del tempo è di là da venire. Che noi sappiamo, gli extraterrestri non ci hanno ancora visitato. Non abbiamo nemmeno gli elitassì.

Eppure, a guardar bene lo spettatore e il lettore esperto si accorgono che proprio qui sta il lato paradossale, genuinamente fantascientifico della nostra situazione: il futuro è arrivato come ladro nella notte, ci è piombato addosso, ha cambiato il mondo in modo inimmaginabile e noi… quasi non ce ne accorgiamo! Ma credete se ne accorgessero gli eroi di Orwell o Huxley, di Heinlein o Arthur C. Clarke? Essi vivono nel futuro, e tanto basta. Chi ha eccessivo rimpianto, chi si rode al pensiero dello scarto che separa le sue aspirazioni dalla realtà nasconde il tarlo di un’inguaribile infelicità: come Enoch Soames, il poeta di Max Beerbohm, che in un noto apologo si trasferisce nell’avvenire a seguito di un patto col diavolo per vedere che ne sarà della sua fama; e per soddisfare la sua curiosità di scrittore senza pane né gloria egli strumentalizza il futuro, lo asserve a un fine diabolico (e, beninteso, perfettamente umano). I delusi del 2000 mi sembrano tanti Enoch Soames: gente umanissima, comprensibilissima, ma che guarda a terra.

Chi pensa che questo sia "un anno come tutti gli altri" è dunque un miope, chi si ostina a riflettere sulle incongruenze fra il futuro in cui viviamo e quello raccontato nei film e nelle riviste di science fiction, è un ingenuo o un abbacchiato. Errore, fatale errore non vedere — e non valutare in tutta la loro perturbante complessità — le avvisaglie del 2001 da cui siamo contornati, le macchine da cui siamo serviti, le spie da cui siamo censurati. La mia opinione personale è che, al contrario, noi tutti ci troviamo a bordo di un’astronave, di un pianeta in trasformazione evolutiva. E’ vero che d’ora in poi dovremo sempre convivere con il futuro autentico e con il suo fantasma, quello che secondo qualcuno "non si è verificato" o è stato semplicemente simulato dai media: ma tutto questo era da mettere nel conto, in un’età riproducibile. Forse non abbiamo ancora ritrovato l’interesse a esplorare i mondi del sistema solare, ma intanto stiamo creando altri pianeti e realtà radicalmente alternative qui sulla Terra, grazie alla capacità del computer di inventare nuovi ambienti a ritmo continuo; forse questo mondo diventerà il regno di intelligenze artificiali massicce, come ipotizzava qualche mese fa lo studioso inglese Hugo de Garis su "Le Monde", cioè una razza di entità cibernetiche decine di volte più consapevoli e sapienti dell’uomo. E forse le nanotecnologie cambieranno la nostra natura di esseri umani, permettendo di integrarci con neocellule artificiali e sofisticatissime. Qualunque sia il futuro, è certo che sarà, ancora una volta, diverso da come lo possiamo ipotizzare adesso.

Fatta dunque piazza pulita sul luogo comune che "il futuro è arrivato e non era come lo sognavamo", rimessi in riga gli eterni polemisti e ribadito che il 2000 si è rivelato esattamente come la miglior fantascienza ci ha insegnato ad aspettarcelo — un fantasma perturbante, dall’apparenza normalissima e dalle infinite astuzie simulatrici, ma soprattutto diverso rispetto al passato anche più recente, quello di venti o trent’anni fa — cerchiamo di volgere lo sguardo tutto in avanti, al suo rapporto con il 2001, appuntamento atteso da trentadue anni da tutti coloro che hanno occhi per vedere. Le prime avvisaglie del 2001 si ebbero poco dopo la metà del secolo che sta per chiudersi, quando nel 1963 uscì Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Per la prima volta gettammo uno sguardo nuovo sulla vista che ci si offriva da quel magnifico spiraglio; il film si concludeva, certo, con la fine del mondo, o almeno l’inizio della fine, ma ci parve un modo di festeggiare nient’altro che la fine di un ciclo, quello della razza umana, e l’inizio del prossimo sotto palingenetiche spoglie. La cosa parve concretizzarsi quando, il lunedì 22 febbraio 1965, un trafiletto pubblicato su "Variety" annunciò l’inizio della lavorazione del nuovo film di "Stan Kubrick, MGM" dal titolo Journey Beyond the Stars. "Journey si svolgerà nell’anno 2001 e racconterà un viaggio nel sistema solare, con la scoperta di intelligenze extraterrestri. Nel film reciterà un cast internazionale". Quando il film finito uscì (in Italia era il dicembre 1968) era stato ribattezzato, simbolicamente, 2001 A Space Odyssey e parve accompagnare il volo di Apollo 8 nella sua prima missione di circumnavigazione lunare, avvenuta poco prima di Natale. 2001 conteneva infinitamente più di quanto il trafiletto di "Variety" osasse promettere: un viaggio nel tempo lungo circa un milione di anni, una revisione della teoria dell’evoluzione, la scoperta di intelligenze extraterrestri e quella di intelligenze artificiali. Come Stranamore, il film si chiudeva sulla morte dell’uomo chiamato a simboleggiare la nostra specie e la sua rinascita sotto forma completamete diversa: Arthur C. Clarke lo definì il Bambino-delle-stelle, ma io credo che quella creatura fetiforme, dagli occhi immensi e le mani sottili nessuno potrà mai dire cos’è. Tanto varrebbe pensare che sia il figlio di HAL e della nave "Discovery", o il fantasma che subito dopo il Big Bang si è nascosto nella Casa oltre lo spazio e il tempo. Per tutti coloro che lo videro allora, e che, finché esisterono sale adeguate o inadeguate, continuarono a rivederlo nei trent’anni successivi un numero incalcolabile di volte, 2001 ha rappresentato un’esperienza spartiacque ed evolutiva, sotto molti aspetti. Avendo avuto 15 anni nel 1968, ebbi la netta percezione che stesse cominciando un’èra nuova, e niente sarebbe più stato come prima. Il XXI secolo si affacciò immediatamente, dandomi la certezza di avere visto la Luna e di averne sfiorato con piedi soffici la superficie polverosa. Aver visto il film nel 1968 ha voluto dire partecipare a un evento storico, uno dei pochi eventi storici capaci di scuotere emotivamente fin dal momento in cui si è verificato, al pari del primo sbarco sulla Luna di Armstrong e Aldrin pochi mesi dopo, nel luglio 1969.

Nella magnificenza incomparabile della sua visione, 2001 rende vero il sogno ariostesco del volo lunare, e, come capitò all’Ariosto, al quale si dice che il cardinale Ippolito d’Este rimproverasse di aver cantato "corbellerie", a Kubrick accadde di essere variamente accusato (dai ciechi) di supponenza, auto-indulgenza e altre inverosimili bordate, paragonabili, per insensibilità, solo a quelle che accompagnarono l’uscita di Arancia meccanica quattro anni dopo, con l’insulsa campagna sulla violenza. In realtà 2001 è stato forse l’unico capolavoro dell’avanguardia visuale del ‘900 a trovare il consenso di larghissimi strati del pubblico, oltre che della critica e degli studiosi di cinema; e più volte è stato incluso negli elenchi dei migliori film di tutti i tempi. Personalmente, se non fosse per l’esperienza di Orson Welles — che regge tutta la sua grandezza — e quella di pochissimi altri maestri che lascio a ciascuno il piacere di immaginare, non esiterei a definire 2001 il punto più alto raggiunto dal cinema sonoro, per quanto valgano certe classificazioni. Ma in un certo senso valgono a ricordarci che ancora esistono fenomeni verticali, opere che si sviluppano in altezza e che non casualmente parlano di dare la scalata al cielo.

Non ho mai creduto in un’arte che voli rasoterra. La creazione di qualcosa, in particolare la creazione di mondi, ci porta inevitabilmente altrove, in alto, nei regni del pensiero e della musica; il connubio geniale di Kubrick fra i suoi fotogrammi avanguardistici e i temi di Strauss, Ligeti e Khakhaturian esprime una forte volontà di ascesa e di abbraccio dell’universo con il pensiero. E’ dal pensiero che nasce l’immaginazione, e dunque la vita consapevole: 2001 è un poema visuale e sinfonico sull’intelletto che muove le astratte forme della materia. Sull’arte come esperienza evolutiva dell’uomo. Ed è il solo capolavoro epico che la nostra cultura ci abbia dato nell’ultima parte del secolo, una circostanza importantissima nel panorama dei minimalismi e delle rivendicazioni culturali settarie. Pensate alla forza di questo gigante — Stanley Kubrick — il quale prende il mondo sulle spalle come Atlante e ce lo mostra dall’esterno, ruotante insieme agli altri mondi; ma poiché la visione del macrocosmo è anche una visione del suo corrispettivo, l’abissale universo psichico, il viaggio di 2001 diventa un’odissea interiore in un senso molto più vasto di quanto non s’intenda normalmente, perché mobilita i pilastri della nostra costituzione: i suoi fondamenti archetipi, non solo psicologici. La materia di cui è fatto il cosmo è anche materia ricettiva, animata: perciò, quello che si compie davanti e "dentro" i nostri occhi assisendo a 2001 è una ricognizione dantesca nei cieli della conoscenza, del simbolo e della pura forza creatrice, la potenza che sprigiona come un vulcano dal momento che è stata suscitata con la musica.

Se c’è una rappresentazione che non invecchia mai, è quella simbolica; ogni parola rimanda a questa stupefacente capacità di creazione, ogni immagine la alimenta, contribuendo a formare nuovo senso e quindi nuova coscienza. 2001 è una celebrazione della coscienza che si afferma come nella grande arte classica, ma non trascura l’Ombra né il suo portato irrazionale e distruttivo. Il protagonista occulto del film, il calcolatore HAL 9000 che forse proprio in questo momento stanno collaudando a Urbana, Illinois, è il geniale capro espiatorio di una drammaturgia che tocca il suo culmine proprio in alcune scene che lo riguardano. Poiché l’universo è evolutivo, questa tragedia di intelligenze in conflitto rappresenta forse il successivo balzo della vita verso i cieli, quando l’umanità verrà superata e gli "intelletti massicci" di cui parla de Garis la spodesteranno, procedendo verso inorganiche, più alte mete. Anche se così fosse, 2001 dimostra a sufficienza che la lotta per la vita non è mai finita, e che le intelligenze biologiche (qui rappresentate da David Bowman, il comandante dell’astronave "Discovery") avranno ancora qualcosa da dire, forse assorbendo una volta per tutte la saggezza delle macchine. Il Bambino-delle-stelle non sarebbe mai venuto senza il nudo parallelepipedo che scaglia il suo anonimo segnale verso Giove, ma neppure senza HAL, il cui nome, come ha osservato qualcuno, è la sigla IBM spostata lettera per lettera verso sinistra. La metafisica di questo film prodigioso, dunque, non riguarda solo l’umanità e i suoi valori, ma l’universo intero, la cui odissea è cantata imparzialmente. Rocce, minerali, metalli, raggi cosmici, materia animata e inanimata, umanità e spirito, cervelli elettronici e pianeti, occhi e cellule fotoelettriche, vita e morte: tutto si dispiega in una visione pancosmica, cioè in una presa di coscienza della totalità dell’essere, comunque si manifesti.

Ma allora, ancora una volta: che rapporto può esserci fra il poema e la vita, fra l’attesa del 2001 simbolico e questo reale, concretissimo (?) anno 2000 in cui viviamo e ci incontriamo oggi? Il rapporto è quello stesso tra la vita e la vita del pensiero: mentre la realtà scorre come un fiume, e ci trascina, il pensiero che ne fa parte la assorbe e la modifica, dando luogo dentro di sé a una vita ulteriore. Infine, questo vero e proprio fiume mentale torna a gettarsi nel mare del reale, che è l’universo senza limiti. 2001 racconta questo processo, e l’anno fatidico che già è balenato fra noi nel ’68 e innumerevoli altre volte nel ricordo e nelle ripercussioni di quell’evento, verrà fra pochi mesi per restare in ciò che è il suo elemento: il futuro che ha contribuito a creare. – Giuseppe Lippi

(30 giugno 2000)


STANLEY KUBRICK
ricordato da Alexander Walker
Ho conosciuto Stanley Kubrick alla fine degli anni ’50. Dopo aver visto Rapina a mano armata in un piccolo cinema alla periferia di Londra, scrissi una lettera alla casa di distribuzione, la United Artists, affermando che quella pellicola doveva essere proiettata nelle sale del centro della città. Mi risposero che era solo un piccolo film di serie B. Usai la mia corrispondenza con i distributori come biglietto da visita e spedii tutto a Kubrick, che allora viveva a New York. Mi rispose di contattarlo quando fossi passato per New York, per uscire insieme a cena.

Quando ci incontrammo, la prima cosa che mi colpì di lui furono i suoi occhi, straordinariamente penetranti. Occhi così li ho visti solo in due persone nella mia vita, Kubrick e Picasso. Avevano entrambi uno sguardo che definirei "cannibalesco": mangiavano le persone con gli occhi. Anche la voce di Kubrick era particolare, esprimeva il desiderio di essere obbedito.

In quell’epoca Kubrick era ancora molto accessibile. Viveva con la sua terza moglie, Christiane (che aveva interpretato la ragazza tedesca nel finale di Orizzonti di gloria), e andammo a cena nel quartiere tedesco-ebraico di New York. Il ristorante sembrava una birreria bavarese. Dopo cena tornai a prendere il cappotto nell’appartamento di Stanley. Era circa mezzanotte e da un pulmino parcheggiato fuori casa stavano scaricando bobine di pellicole. Ho guardato i titoli sulle scatole; erano in giapponese, ma intravvidi anche alcune parole inglesi come jupiter [Giove], saturn [Saturno], moon [luna]. Chiesi a Stanley "stai per fare un film sullo spazio profondo?" Si girò verso di me e mettendo l’indice sulle labbra disse: "Alex, stai attento a quello che scrivi." Già nel 1959 Kubrick era molto riservato e teneva particolarmente alla segretezza sui suoi progetti. Era il suo modo di difendersi nell’industria cinematografica. Ovviamente stava pensando a 2001: Odissea nello spazio e quelle pellicole di fantascienza credo gli servissero per farsi un’idea del punto a cui era giunta l’evoluzione degli effetti speciali. A questo proposito, apro una parentesi rivelando qualcosa che non siamo in molti a sapere. Negli ultimi anni, Kubrick stava pensando di girare in modo diverso la scena dello star-gate di 2001. Confrontando l’episodio del film con gli effetti speciali del cinema di oggi, la scena gli sembrava datata, una specie di cartone animato, diceva, e pensava appunto di rifarla.

La mia amicizia con Kubrick riprese e si rafforzò quando lui si stabilì in Inghilterra. Era venuto per girare Lolita. La produzione aveva deciso di fare il film lì per vantaggi fiscali ma anche perché i produttori americani sentivano che l’Inghilterra non avrebbe creato problemi riguardo alla vicenda sessuale molto controversa. Così Stanley scoprì che l’Inghilterra lo lasciava lavorare in pace e decise che quello era un posto buono per rimanerci.

La gente talvolta mi chiede come mai Kubrick creasse un rapporto tanto stretto con qualcuno che lavorava nei giornali. Il fatto è che Stanley era affascinato dal potere e da come veniva esercitato nella società, anche attraverso i mass media. Era solito telefonarmi per chiedermi cosa ne pensavo dell’attualità politica rispetto a certe notizie che aveva letto. Credeva che, in quanto giornalista, io potessi comprendere come la stampa influenzi il concetto che la gente ha della società.

Stanley credeva nelle cospirazioni. Uno dei suoi motti preferiti era "un paranoico è qualcuno che è in pieno possesso dei fatti". Era un cinico, credeva sempre che il peggio dovesse ancora venire, e lo si può constatare anche in molti dei suoi film: Rapina a mano armata, Dottor Stranamore, Orizzonti di gloria e persino 2001 hanno come tema dei piani perfetti che finiscono a rotoli. Quello era il punto di vista di Stanley sulla vita in genere. Quanto alla sua vita e al suo lavoro, cercava sempre di controllarne ogni aspetto per evitare disastri. Ecco perché tutti quelli che hanno lavorato per lui venivano risucchiati nel suo mondo. Come, appunto, l’astronauta di 2001 viene risucchiato attraverso lo star-gate e diventa una persona diversa. A Stanley piaceva il controllo totale della gente; una conversazione con lui era come un interrogatorio. Uno dei suoi modi preferiti per espolorare il carattere delle persone era quello di farle giocare a scacchi con lui. Un altro modo era giocare a ping-pong. Riteneva che giochi di quel tipo mettessero in luce le debolezze di carattere delle persone e le rendesse più vulnerabili ai suoi suggerimenti e al suo controllo. Fortunatamente per me, giocavo male a ping-pong e non giocavo per nulla a scacchi e così siamo rimasti amici a lungo.

Alcuni degli attori che hanno lavorato con lui sentivano come un peso il controllo totale del regista. Un controllo che si rileva anche nel tipo di narrazione. Kubrick, come Orson Welles e Woody Allen, appartiene all’ "età della radio": film come Quarto potere e Il dottor Stranamore potrebbero essere compresi anche solo ascoltandoli. C’è spesso una voce narrante fuori campo nei film di Kubrick oppure il protagonista è anche il narratore e queste voci spiegano tutto, a volte anticipano la storia, così gli attori possono avere la sensazione di non giocare un gran ruolo. Ryan O’Neal disse che per gli attori uno dei rischi di lavorare con i grandi registi era di non capire come sarebbe stata la loro interpretazione finché non andavano a vedere il film. Peter Sellers, Jack Nicholson, Tom Cruise invece amavano lavorare con Kubrick in questo modo, improvvisando e ripetendo decine e decine di volte la stessa scena, scoprendo via via nuovi risvolti del personaggio e insieme lati insospettati della loro personalità. Il controllo totale del regista non equivale infatti a limitare la capacità di esprimersi dell’attore, il cui apporto è fondamentale e può modificare il film nel suo farsi. Shining, ad esempio, secondo Kubrick doveva essere un film di successo, i cui ingredienti principali erano l’horror, l’occulto, il soprannaturale. Ma l’interpretazione di Nicholson gli fece capire che c’era qualcosa di più nel personaggio, la cui nevrosi rendeva la storia molto più interessante. Il risultato è che Shining è — secondo me — un film straordinario dal punto di vista psicologico ma non è riuscito come film sulle forze soprannaturali. E Kubrick condivideva questo giudizio…

Arancia Meccanica ha avuto una storia particolare in Gran Bretagna, dove il film uscì nel 1972. All’epoca ci furono diversi episodi di violenza giovanile e spesso gli avvocati che difendevano i colpevoli adducevano a loro parziale giustificazione la visione del film e l’effetto imitazione. Per tutta risposta, Kubrick decise di ritirare il film dalle sale inglesi nel 1974 e da allora rifiutò sempre di rimetterlo in circolazione. Due generazioni di giovani inglesi non hanno potuto vederlo e solo dopo la morte di Kubrick il film è tornato nelle sale per autorizzazione della famiglia, ma è vietato ai minori di 18 anni (mentre in Italia, ad esempio, è vietato ai minori di 14 anni)…

Stanley poteva lavorare anche in una cella a patto che potesse comunicare con il resto del mondo. Il suo film prediletto, il Testamento del Dottor Mabuse di Fritz Lang, si svolge per lo più in un manicomio; Mabuse dà gli ordini alla sua banda scrivendo i messaggi sulla carta e gettandoli dalla finestra della cella. Credo che Stanley vedesse il mondo come un manicomio in cui lui era l’unico sano di mente. Trovava che non ci fosse nulla di male a vivere in una prigione, a patto di poter comunicare con l’esterno. Era convinto che il Dottor Mabuse avesse trovato un modo brillante per comunicare.

Quando comprai il mio primo appartamento a Londra, Stanley venne a vederlo; era molto moderno, con grandi finestroni. Dissi a Stanley "mi piace questo posto ma temo che possano rompermi le finestre"; Stanley disse "Alex, la soluzione è facile: mettici delle sbarre, ti abituerai a viverci dietro." Non dimentichiamo che molte grandi opere d’arte sono state prodotte in una cella di prigione.

Kubrick viveva un po’ da recluso, ma comunicava con il mondo attraverso le sue opere. I suoi film trattano i temi fondamentali dell’esistenza umana, la morte, la guerra, il sesso, la sopravvivenza, lo spazio e si rivolgono al pubblico di tutto il mondo. Anche mentre faceva un film amava stare in ambienti chiusi. Non è un caso che tutti i suoi film, ad eccezione di Barry Lyndon, siano stati girati in studio. Il Vietnam di Full Metal Jacket è tutto ricostruito in studio, così come New York in Eyes Wide Shut…

Così come aveva collaborato ai suoi film, la sua famiglia partecipò coralmente all’organizzazione del funerale di Kubrick, che si svolse nella sua casa. C’erano circa un centinaio di persone e i suoi cani sembravano non capire il motivo di tante presenze e cercavano inquieti l’unica persona che a loro interessava e che inspiegabilmente non era lì. Andammo tutti in un grande tendone allestito nel giardino. Lì vidi uno dei pochissimi ritratti di Kubrick, dipinto dalla moglie. Stanley era molto superstizioso riguardo alla propria immagine e non amava essere fotografato né ripreso. Un po’ come certi popoli primitivi, credeva che l’immagine contenesse in qualche modo lo spirito della persona, che cioè la macchina fotografica e la macchina da presa "rubassero" l’anima. Guardando il ritratto, ricordo di aver pensato che Christiane doveva averlo fatto proprio in quei giorni. Era inverno e c’era neve sullo sfondo, dietro la finestra, e l’espressione di Kubrick era sì quella del padrone di casa, di qualcuno che è nel proprio regno, ma era come se non fosse perfettamente a suo agio...

Al momento dei discorsi in memoria, Tom Cruise raccontò di quando fu chiamato con la moglie Nicole Kidman ad esaminare il copione di Eyes Wide Shut. Kubrick disse loro di leggerlo con calma ma che alla fine avrebbero dovuto dirgli sì o no. Entrambi accettarono, ma non si resero conto in quel momento che ciò avrebbe significato lavorare per due anni solo ed esclusivamente per quel film. Il fatto è che Kubrick non aveva mai il problema di finire un film in tempi brevi. Dal 1960 in poi, tutti suoi film sono stati prodotti dalla Warner e ogni nuovo lavoro era di fatto finanziato dai successi precedenti. Da questo punto di vista, Kubrick aveva un potere economico e legale pari solo a quello di Chaplin.

Poi fu la volta di Steven Spielberg, che ricordò a tutti come Kubrick non amasse molto incontrare le persone ma poteva stare ore e ore al telefono. Con lui, comunicava preferibilmente via fax e lo aveva convinto a tenere un fax in camera da letto. Ricordava molti momenti in cui era steso sul letto, la notte, e sentiva il rumore del fax che continuava a ricevere interminabili messaggi da Kubrick. Quando Spielberg si sposò con l’attuale moglie, il rumore del fax continuò a tenere loro compagnia finché lei non gli impose di "buttare Stanley fuori dalla camera".