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Carlo Gaberscek su CUORI SENZA FRONTIERE (1950) di L. Zampa |
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I drammi del dopoguerra in Cuori senza frontiere con la Lollo e Raf Vallone
Cuori senza frontiere, uscito nel 1950, diretto da Luigi Zampa e interpretato da Raf Vallone, Gina Lollobrigida, Erno Crisa, Cesco Baseggio, Enzo Staiola, è ambientato in un piccolo paese del Carso goriziano diviso in due dalla “linea bianca”, la linea di frontiera fra Italia e Jugoslavia tracciata dalla Commissione Internazionale dei Territori creata in base al Trattato di Pace e agli accordi del 9 agosto 1947. La scena iniziale, con la panoramica del paese e la voce fuori campo che illustra sinteticamente la situazione, sembra tratta (come nel caso di altri film di quel periodo) da un cinegiornale. Entro mezzanotte gli abitanti devono scegliere se essere italiani o jugoslavi. Ma i bambini del paese non si rassegnano a quella forzata separazione e fanno sparire uno dei paletti di demarcazione. Ne nasce un forte clima di tensione tra le due parti che culmina in una sparatoria in cui uno dei bambini viene gravemente ferito. Nella generale commozione, le divisioni e le contrapposizioni sembrano per un momento essere superate e le guardie di frontiera lasciano passare il camion che porterà il bambino all’ospedale di Gorizia; ma la voce fuori campo spiega che egli morirà e che la linea bianca andrà oltre quel paese “… per nazioni intere su fino al nord, fino a dividere un continente dall’altro”. Luogo centrale del film è dunque un confine politico-militare, anzi la costruzione di un confine, con paletti, linee di demarcazione, filo spinato, cavalli di frisia, sbarre, guardie armate che dividono ciò che prima era unito. La vicenda di un piccolo paese, un microcosmo in cui la volontà di dividere che viene imposta dall’alto fa esplodere contrasti, disperazioni, risentimenti, minacce, diffidenze, incertezze, emozioni, passioni, crisi di identità e di appartenenza, diventa quindi metafora di una tragedia molto più vasta. Come racconta il critico cinematografico triestino Tullio Kezich, che fu segretario di produzione del film ed ebbe anche una piccola parte come tenente jugoslavo della Commissione Internazionale, il copione prese spunto da un tema di attualità: le immagini del cimitero di Gorizia diviso in due dal confine. Si decise però di girarlo (nel 1949) a Santa Croce, Monrupino e dintorni, un paesaggio carsico che sessant’anni fa appariva molto diverso da quello di oggi, uno scenario aspro e spoglio ed irto, molto adatto al rafforzamento della rappresentazione drammatica. Quali i motivi della scelta del Carso come location di Cuori senza frontiere, un film di budget contenuto che, come altri contemporanei, poteva essere girato prevalentemente in studio o nei dintorni di Roma? Nel 1949 siamo nel pieno della guerra fredda e nel vivo della questione di Trieste. In tale contesto il Carso (che, tra l’altro, era una location cinematografica inedita), già fissato nell’immaginario collettivo, e proprio con quelle connotazioni di paesaggio aspro e roccioso, come luogo della grande guerra patriottica, veniva ad assumere un alto valore simbolico. Un luogo fortemente evocativo, sacralizzato, che, trent’anni dopo, veniva violato e diviso da un rigido confine. (Messaggero Veneto, 8 febbraio 2010) |
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