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Anno festival Sezione festival
2007 René Clair: Le silence est d’or -- Prog. 7

Titolo film LES DEUX TIMIDES
Titolo alternativo 1 I due timidi
Titolo alternativo 2
Titolo alternativo 3
Paese France
Data uscita 1 marzo 1928
Produzione Films Albatros/Sequana Film
Regista René Clair

Formato   Velocità (fps)
35mm   20
     
Lunghezza   Durata
1739 m.   76'

Fonte copia Cinémathèque Française, Paris
   
Note copia Didascalie in francese / French intertitles

Cast
Pierre Batcheff (Frémissin), Jim Gérald (Garadoux), Maurice de Féraudy (Thibaudier), Véra Flory (Cécile Thibaudier), Françoise Rosay (la zia di Frémissin/Frémissin’s aunt), Yvette Andreyor (Madame Garadoux), Madeleine Guitty (Annette, la cameriera/the maid), Louis Pré fils, Anne Lefeuvrier, Bill Bockett, Léon Larive, Odette Talazac, Paul Franceschi, André Volbert, Paul Ollivier
 
Altri credits
., scen: René Clair, dalla pièce di/based on the play by Eugène Labiche & Marc Michel (1860); f./ph: Robert Batton, Nicolas Roudakoff; scg./des: Lazare Meerson
 
Altre informazioni
 
Scheda film
Les deux timides, ultimo film muto di Clair, è probabilmente la più sottovalutata e la meno conosciuta delle sue grandi commedie. Malgrado la buona accoglienza ricevuta all’epoca della sua uscita, il film non ha mai goduto di grande stima neppure da parte dei più strenui sostenitori francesi di Clair – Roger Régent, Georges Charensol, Olivier Barrot, Jean Mitry, Pierre Billard – che gli riconoscevano un certo fascino, ma nel complesso lo giudicavano o un’opera minore o un mezzo fallimento tout-court. Tra i suoi difensori, Celia McGerr si spinse all’estremo opposto, definendo il film “uno dei più ambiziosi sul piano visivo – e tra i meglio riusciti in assoluto – dell’era del muto”.
Lo stesso Clair lo avrebbe in seguito disdegnato: “Quel film non mi piace”, dichiarò a Celia McGerr, “è stato solo un gioco.” Ma forse la freddezza del regista nei confronti di una delle sue commedie più piacevolmente maliziose era condizionata dal ricordo delle stressanti condizioni in cui era stata realizzata. La proie du vent e Un chapeau de paille d’Italie erano nati da un contratto con l’Albatros di Kamenka che prevedeva la realizzazione di due film in dodici mesi, contratto che dopo il successo del secondo dei due titoli succitati venne rinnovato. L’intesa tra Clair e Kamenka parve funzionare. Ma non per molto. Clair non riusciva a trovare un’idea che ottenesse l’approvazione del produttore (uno dei progetti scartati fu Le million!). Col rapido trascorrere dei mesi, Clair, pilotato da Kamenka (e malgrado detestasse ripetersi), tornò a cercare nuovamente ispirazione in Labiche. La scelta cadde su una pièce del 1860 intitolata Les deux timides, da cui trasse rapidamente una sceneggiatura. Poi, cambiando rotta all’improvviso, Clair si appassionò a un progetto che appariva del tutto alieno al suo temperamento comico – intitolato Une enquête est ouverte, avrebbe dovuto essere la ricostruzione in stile documentaristico di un’indagine poliziesca su un caso di omicidio, dal delitto al castigo: una sorta di prototipo dei film polizieschi che si gireranno a Hollywood nei tardi anni ’40. La preparazione del film era già a buon punto quando Kamenka, preoccupato dalla riluttanza del governo a garantire un suo patrocinio ufficiale al film, annullò il progetto. Clair allora girò Les deux timides. Ma poiché il contratto prevedeva la realizzazione di due film in un anno, i suoi rapporti con Kamenka si inasprirono. La loro divergenze dovettero essere risolte tramite un arbitrato legale. E anche se in seguito i due avrebbero riallacciato dei rapporti cordiali, i loro legami professionali si spezzarono per sempre.
Les deux timides, pur non avendo la perfezione formale, la verve comica e lo charme d’epoca di Un chapeau de paille d’Italie, reca comunque il segno della fertile immaginazione visiva di Clair e della sua padronanza della tecnica. La pièce di Labiche – un atto, scena fissa – è un’esile commedia psicologica che vede protagonisti due individui patologicamente timidi: Thibaudier, un proprietario terriero di provincia e Frémissin, un giovane ed inetto avvocato. Frémissin non trova il coraggio di chiedere la mano della figlia di Thibaudier, Cécile, ignorando che Thibaudier è stato costretto a prometterla in moglie a un giovane bellimbusto suo rivale, Garadoux. Quando poi Frémissin scopre che Garadoux altri non è se non un ex carcerato da lui (maldestramente) difeso tempo addietro in un processo per maltrattamenti coniugali, smaschera il rivale e conquista la mano di Cécile.
Collocando la vicenda in un presente non meglio definito, Clair rielabora e amplifica l’azione inventando nuovi personaggi di contorno (la zia di Frémissin, un gruppo di bambini dispettosi), nuove complicazioni e una serie ininterrotta di gag. Il film si apre infatti con processo (nella pièce evocato solo di sfuggita durante un breve monologo) che è al contempo un piccolo capolavoro a sé di farsa cinematografica e una parodia dei virtuosismi tecnici di un certo tipo di regia: la disastrosa difesa di Garadoux da parte di Frémissin. Anticipando con impazienza il cinema parlato, Clair visualizza con arguzia la retorica della pubblica accusa (la brutalità dell’imputato verso la propria moglie viene evocata tramite una cupa e melodrammatica mise en scène), poi la prolissa e svenevole oratoria della difesa – insipide immagini di felicità domestica esaltate dall’effetto moltiplicante dello split-screen (beccati questo, Abel Gance!). Poi, l’improvvisa apparizione di un topolino getta lo scompiglio nell’aula del tribunale e Frémissin perde il filo del discorso. Mentre farfuglia e ricorre ai propri appunti, la visualizzazione della tesi difensiva subisce un brusco cambiamento, bloccandosi nel fermo immagine, saltando in avanti o addirittura procedendo a ritroso – finché Frémissin non crolla del tutto chiedendo per il suo assistito “il massimo della pena”.
“La sola cosa che mi divertiva in quello script”, sostenne Clair in un’intervista concessa a Charles Samuels nel 1972 “era l’opportunità che offriva di restituire il parlato tramite immagini più che attraverso il suono.” Del resto Clair aveva già dato prova di saper visualizzare (senza ricorrere alle didascalie) un monologo in una brillante scena di Un chapeau de paille d’Italie, là dove Fadinard, il protagonista del film, racconta stupidamente al cornuto Beauperthuis di come, nel parco, il suo cavallo abbia mangiato il cappello di paglia di una signora infedele al marito. Invece di ricorrere a un convenzionale flash-back, Clair ci propone la scena facendola reintepretare dai suoi protagonisti su un palcoscenico teatrale, con tanto di fondali dipinti e cavallo finto – una metafora teatrale che suggerisce il tono enfatico e borioso del monologo di Fadinard.
Non è facile mantenere nei rulli successivi il livello di un inizio come questo ed è comprensibile che alcuni critici abbiano trovato il resto del film piacevole, ma anche piuttosto disarticolato e di scarso mordente. Mitry è particolarmente veemente nello stigmatizzare la povertà di costruzione del film e l’incoerenza di tono, la commistione tra la farsa caricaturale e la commedia psicologica della pièce di Labiche. Ma Celia McGeer sa sicuramente cogliere meglio nel segno, quando afferma: “Il vero miracolo di Les deux timides non sta tanto nella sua bravura tecnica, quanto nella sua capacità di trascenderla, lasciandosi coinvolgere dai personaggi e dalle loro emozioni”. E in effetti, il film è memorabile sia per il suo intimo, delicato umorismo (il corteggiamento e la proposta di matrimonio di Frémissin così teneramente calamitosi) quanto per le sue abili trovate tecniche e la sua comicità puramente fisica (si vedano, ad esempio, l’inseguimento di stampo prettamente clairiano e la seconda scena processuale che completa felicemente il cerchio della commedia).
Ma Les deux timides deve molto del suo fascino e della sua freschezza alla esilarante performance keatoniana di Pierre Batcheff nel ruolo di Frémissin, cui fa da perfetta controparte il Thibaudier di Maurice “Crainquebille” de Féraudy. L’esule russo Batcheff era già apparso in molte delle prime produzioni della Albatros, dove aveva colpito i critici contemporanei per la varietà della sua gamma espressiva e la naturale eleganza – il suo generale Hoche nel Napoléon di Gance rimane un superbo ritratto di aristocratico compassionevole. Il biennio 1928-29 segnò il periodo di massimo splendore nella carriera di Batcheff, che fu anche un superlativo Albert de Morcerf in Monte Cristo di Henri Fescourt e il surreale protagonista di Un chien andalou di Buñuel e Dali. Nel 1932, la sua promettente carriera nel cinema sonoro venne prematuramente stroncata da un suicidio correlato all’abuso di stupefacenti. – LENNY BORGER