René Clair - Un Chapeau de paille d’Italie
Scheda di Lenny Borger


EVENTO MUSICALE/MUSICAL EVENT
UN CHAPEAU DE PAILLE D’ITALIE (Un cappello di paglia di Firenze)
(Films Albatros, FR 1927)
Regia/dir., scen: René Clair, dalla piece di/from the play by Eugène Labiche & Marc Michel (1851); f./ph: Maurice Desfassiaux, Nicolas Roudakoff; scg/des: Lazare Meerson; cast: Albert Préjean (Fadinard, lo sposo/the groom), Yvonneck (Nonancourt, il suocero/the father-in-law), Marise Maia (Hélène, la sposa/the bride), Olga Tschekowa (Anais Beauperthuis), Vital Geymond (il tenente/Lieutenant Tavernier), Jim Gérald (Beauperthuis), Alex Allin (Félix, il domestico/the valet), Paul Ollivier (Vésinet, lo zio sordo/the deaf uncle), Louis Pré fils (Bobin, il cugino con un guanto/the cousin with one glove), Alexis Bondireff (il cugino con la cravatta/the cousin with the tie), Alice Tissot (sua moglie/his wife); data uscita/released: 12.1.1928; 35mm, 2229 m., 103’ (19 fps); fonte copia/print source: Cinémathèque Française, Paris.
Didascalie in francese / French intertitles


Musiche di Nino Rota eseguite al pianoforte da Angela Annese.

Un chapeau de paille d’Italie, realizzato da Clair a partire dal vaudeville di Labiche e Michel, ha conosciuto nel corso del tempo più di una colonna sonora; ma anche il fortunatissimo testo teatrale, vero e proprio classico del genere, ha ispirato alcuni tra i più importanti musicisti del Novecento europeo, primi fra tutti Jacques Ibert (che compose nel 1929 le musiche di scena per la rappresentazione teatrale del testo ad Amsterdam, da cui trasse un raffinatissimo Divertissement nel 1930) e Nino Rota, che, già autore “cinematografico”, fortemente impressionato dalla visione del film di Clair, fu autore tra il 1945 e il 1954 di una riuscitissima trasposizione nel teatro musicale – Il cappello di paglia di Firenze – andata in scena nel 1955 a Palermo e poi alla Piccola Scala di Milano con la regia di Giorgio Strehler per tre stagioni di seguito, tuttora oggetto di sempre nuovi allestimenti nei maggiori teatri lirici italiani. La proiezione del film può così essere accompagnata da una sorta di “pastiche” delle bellissime musiche composte per Il cappello. - Angela Annese


Un chapeau de paille d’Italie, film di svolta nella carriera di Clair e suo primo indiscusso capolavoro, confermò tutte le speranze che il produttore Alexandre Kamenka aveva riposto sul giovane regista dopo il successo di La proie du vent. Restituendo a Clair lo status di grande promessa del cinema francese, il film rinvigorì, sia pur provvisoriamente, anche le deboli finanze della Films Albatros di Kamenka, fino a poco tempo prima enclave cinematografica degli esuli russi.
Kamenka non si era mai ripreso completamente dalla defezione della sua “compagnia” di esiliati – registi, attori e tecnici (tra cui, in primis, l’attore Ivan Mosjoukine) che nel 1924 ruppero con la Films Albatros per dirigere a Billancourt un nuovo studio per conto del consorzio europeo Westi (le cui produzioni più importanti furono Michel Strogoff di Tourjansky e la prima parte del Napoléon di Gance).
Per rimpiazzare i defezionari Tourjansky e Volkoff, Kamenka accolse nelle sue file Jean Epstein e Jacques Feyder (e in seguito Clair). Allo sfortunato Feyder toccò il dubbio onore di dirigere Raquel Meller in una sontuosa nuova superproduzione della Carmen di Prosper Mérimée. Artisticamente, il film nacque sotto i peggiori auspici (la Meller, cattolica devota, rifiutò di interpretare Carmen come l’amorale, focosa, zingara dell’originale) e il suo mediocre risultato al botteghino, oltre a stroncare sul nascere ogni velleità divistica dell’attrice, costrinse Feyder a un altro esilio professionale e ridusse al lumicino le finanze della Albatros.
La Films Albatros, già portabandiera dell’industria francese, tornò a produrre commedie di routine basate su popolari testi teatrali. (Una successiva incursione nella coproduzione internazionale con partner svedesi, spagnoli e tedeschi si risolse in un fiasco analogo a quello di Carmen). Le pregevoli, ancorché minori, trasposizioni cinematografiche di commedie teatrali quali Jim la houlette, roi des voleurs e Le chasseur dechez-Maxim’s – entrambe confezionate su misura per l’unica star russa rimasta con Kamenka, Nicolas Rimsky – riscossero abbastanza successo da mantenere a galla lo studio. Ma se non fosse stato per le due commedie di Clair – oltre, naturalmente, all’adattamento così stupendamente clairiano di Les nouveaux messieurs del reduce Feyder – il sipario sarebbe calato sulla Albatros molto prima di quanto poi non avvenne. (Negli anni ’30, la Albatros scivolerà in una produzione commerciale di scarso pregio artistico affidata a registi di secondo piano – con l’unica eccezione di un autore prestigioso quale Jean Renoir, ma alle prese con un suo pasticciato adattamento da Gor’kij, Les bas-fonds [Versolavita, 1936]).
Contrariamente agli altri adattamenti della Albatros, che in genere erano tutti recenti successi del teatro boulevardier parigino, Un chapeau de paille d’Italie di Eugène Labiche era un capolavoro della commedia farsesca dell’800 (o, più specificamente, del vaudeville, un genere di commedia leggera i cui dialoghi erano disseminati di canzoni con testi adattati a melodie già note). Andata in scena per la prima volta nel 1851, e oggetto di frequenti revival nel corso di tutto il ’900, ricevette un imprimatur ufficiale nel 1938, quando venne inserita nel repertorio della Comédie Française.
Per quanto possa apparire incredibile, i diritti cinematografici della commedia erano stati acquistati da Marcel L’Herbier, il più serioso e nobilmente ispirato dei registi dell’avanguardia. Fortunatamente per tutti, L’Herbier accettò graziosamente di cedere i diritti del film a Kamenka, che affidò la regia a Clair.
Benché il giovane critico Clair avesse stigmatizzato la malsana dipendenza del cinema dal teatro e dalla letteratura, la pièce di Labiche aveva un ritmo e un movimento di intrinseca qualità “cinematografica” che accesero la fantasia del giovane regista. Il pubblico e la critica di metà ’800 erano rimasti piacevolmente sorpresi dalla innovativa struttura drammaturgica e dal ritmo scatenato della commedia che, lungi dall’essere una statica “situation comedy” affidata unicamente alla brillantezza dei dialoghi, creava un “vaudeville de mouvement”: Labiche sguinzagliava l’intero cast in una corsa a perdifiato attraverso Parigi alla ricerca dell’eponimo cappello destinato a salvare l’onore di una signora sposata e a impedire la distruzione sistematica dell’appartamento borghese di un novello sposo. Per certi aspetti, Un chapeau de paille d’Italie rappresenta un rovesciamento della seconda metà di Entr’acte, dove il funerale diventa un matrimonio e il carro funebre viene rimpiazzato da un copricapo femminile.
Clair scrisse e diresse Un chapeau de paille d’Italie in una sorta di incandescente stato di grazia. Lo script venne completato (come lo stesso Clair sosterrà in seguito) in otto giorni. Secondo Pierre Billard, l’intero film, dalla stesura del primo trattamento alla sua première di gala (avvenuta presso l’“alma mater” di Clair, il Théâtre des Champs-Elysées) richiese solo cinque mesi! “Il che suggerisce un impeccabile senso dell’organizzazione, un’assenza di intoppi durante la lavorazione, ma anche qualcosa di più: una visione coerente dell’intero progetto dal bell’inizio, uno slancio di tale vigore e precisione da garantire al film una controllata fluidità di regia e un montaggio praticamente già eseguito durante le riprese”.
“L’impeccabile senso dell’organizzazione” denotava l’efficienza produttiva dello studio e quello spirito di gruppo di cui Clair avrebbe sempre avuto bisogno per ottenere i suoi risultati migliori. (Basti pensare a come, nei primi anni ’30, presso la Tobis, il più all’avanguardia degli studi parigini, Clair darà il meglio di sé, producendo i suoi primi quattro film sonori nel giro di di tre anni, e a come invece brancolava quando cambiava studio e troupe). Per quanto piccolo, lo studio di Montreuil della Albatros, anche dopo lo scisma del 1924, mantenne la fama dei suoi elevati standard produttivi. (Purtroppo, il film di Clair fu l’ultimo ad essere girato a Montreuil – alla scadenza del contratto d’affitto lo studio chiuse i battenti poco dopo aver completato l’edizione del film).
All’epoca, la reputazione di cui godeva lo studio era dovuta soprattutto al lavoro di un uomo: Lazare Meerson. Per Clair questa era la seconda collaborazione (di otto) con il brillante e giovane art director russo (erano nati entrambi nel 1898) diventato capo scenografo della Albatros al posto di Alexandre Lochakoff, anch’egli dotato di grande talento, ma di impostazione più classica. Meerson riusciva a dare alle produzioni Albatros, anche alle più insignificanti, quel tocco di classe che senza di lui forse non avrebbero mai avuto. (I suggestivi set di Carmen sono una delle poche ragioni per cui valga ancora la pena di rivedere il film.)
In Un chapeau de paille d’Italie, Meerson assecondò brillantemente Clair, che volle spostare l’azione della commedia dall’epoca del Secondo Impero agli ultimi anni dell’800. Ambientando il film nel 1895, Clair e Meerson evocavano un passato non troppo lontano che coincideva con la nascita del cinema. Léon Barsacq sottolinea questa duplicità di intenti quando descrive il film di Clair come “una garbata caricatura della piccola borghesia della Belle Époque” e i deliziosi interni carichi di fronzoli di Meerson come “una caricatura dei set dei film Pathé dei primordi”. In una sua infervorata scheda scritta nel 1940 in occasione della presentazione del film al Museo d’Arte Moderna di New York, Iris Barry ricordava il perdurante “affetto di Clair per i film delle origini” e di come una volta egli avesse “dichiarato di voler tornare a ispirarsi allo stile libero e innocente del cinema d’antan … Nel Cappello di paglia di Firenze … Clair seppe splendidamente assecondare la sua predilezione per quel passato con un adattamento da Labiche che non era una mera ricostruzione scenografica dell’epoca della nascita del cinema ma che doveva apparire ‘come se’ fosse stato girato nel 1895. Malgrado la ricostruzione in studio di quasi tutti gli interni, ogni singola scena coglie alla perfezione  il sapore e l’atmosfera dei film di trent’anni prima, come quando le maestranze delle officine Lumière, uscendo per la pausa del pranzo, vennero colti e fissati per sempre dal cinematografo in quel soleggiato momento”. E, a proposito di “momenti soleggiati” nessun elogio dell’immutabile fascino del film sarebbe completo senza menzionare la nitida, raffinata fotografia di Maurice Desfassiaux (il cameraman di Clair in Parisquidort) e Nicolas Roudakoff.
Un chapeau de paille d’Italie rimane una delle più brillanti ed eleganti commedie mai girate – un film che anche i detrattori di Clair, allergici al facile sentimentalismo dei suoi primi film sonori, non possono fare a meno di ammirare. Brillantezza ed eleganza che, indubbiamente, sono il frutto della inimitabile visione comica di Clair, delle sue gag puramente visive (vi sono appena due dozzine di didascalie in tutto!) e della sua ormai matura padronanza tecnica. Senza dimenticare, beninteso, la leggerezza di tocco nel dirigere gli attori. La farsa rappresenta uno dei generi teatrali più difficili da mettere in scena, e il compito si rivela ancora più arduo davanti a una cinepresa. Leggendo la commedia, si rimane deliziati dai caratteri folli dei caricaturali personaggi di Labiche. Grazie al tocco garbato di Clair, un cast eterogeneo di attori europei e di immigrati russi viene plasmato in un ensemble perfetto, in un ritratto di gruppo della borghesia francese, capeggiato dall’attore feticcio di Clair, Albert Préjean, nel ruolo del vessato sposo novello Fadinard, da Paul Olivier (altro caratterista abituale di Clair) nel ruolo dello zio stordito e sordo, senza dimenticare Alexei Bondireff, il cugino arruffone con la cravatta storta (impegnato in uno dei grandi numeri comici della commedia cinematografica), la sensuale Olga Tschekowa, proprietaria del cappello di paglia al centro della vicenda, e lo svizzero Jim Gérald, che introduce una irrinunciabile nota patetica nei panni del marito cornuto.