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Prog.
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DER MÄDCHENHIRT (Künstlerfilm
GmbH, Berlin, DE 1919)
Regia/dir: Karl Grune; scen: Karl Grune, Beate Schach, dal
romanzo di/from the novel by Egon Erwin Kisch; f./ph: Felix
Xaver; scg./des: August Rinaldi, Karl Grune; cast: Magnus
Stifter (commissario di polizia/Crime Commissioner Duschnitz),
Fritz Richard (Chrapot), Lotte Stein (sua molie/his wife), Henri
Peters-Arnolds (Jaroslav, “Jarda l’elegante”/“Jaunty
Jarda”), Lo Bergner (Betka Dvorak), Roma Bahn (Luise Heil), Rose
Liechtenstein [Lichtenstein] (Illonka Sereniy), Paul Rehkopf (Albert
Wessely, “Adalbert il lascivo”/ “Randy Adalbert”),
Franz Kneisel (Anton Novotny, “Toni il nero”/“Black
Tony”), Alfred Kühne; riprese/filmed: 1919, in Praha
(Prague); data v.c./censor date: 10.1919; première:
9.1919 (presentazione alla stampa/press screening), Berlin; lg.
or./orig. l.: ?? m.; 35mm, 1553 m., 75’ (18 fps), col. (imbibizione
e viraggio originali riprodotti su pellicola a colori/printed on colour
stock, reproducing original tinting and toning); fonte copia/print
source: Bundesarchiv-Filmarchiv, Berlin.
Didascalie in tedesco / German intertitles.
Durate la sua vita, il regista Karl Grune fornì svariate
spiegazioni sulla genesi della sua passione per il cinema. Una di queste
riguardava il periodo trascorso in compagnia di soldati di altre nazioni
durante la prima guerra mondiale, quando aveva imparato a capire i loro
discorsi dai volti e dai gesti; da qui il suo impulso a sviluppare nel
cinema un linguaggio fatto unicamente di immagini. Un’altra faceva
invece riferimento alla scoperta, quando era un giovane uomo di teatro,
delle straordinarie possibilità di riproduzione diretta della
realtà offerte del cinematografo. “Là dove il teatro
serviva a creare un’illusione”, ricordava nel 1936 sulla
rivista inglese Picturegoer, “la ‘kine-camera’ poteva,
in una ininterrotta alternanza di luci ed ombre, cogliere una rappresentazione
del reale”.
E a questa supremazia della “rappresentazione del reale” Grune rimase
fedele per tutta la sua carriera. In Der Mädchenhirt, suo primo
film da regista, la cinepresa assorbiva l’atmosfera delle strade e dei
vicoli di Praga (Grune stesso, benché nato a Vienna, era cittadino cecoslovacco).
Il tono del film era realistico, l’atmosfera severa: qualità mai
perdute anche quando il suo lavoro divenne via via più sottile, più ricercato
dal punto di vista formale e di maggiore profondità sul piano psicologico.
Questo non è ancora il Grune di Die Strasse, il cruciale film ‘di
strada’ degli anni ‘20, in cui si intersecheranno naturalismo e espressionismo;
ma in questo racconto di malavita praghese si muove già in quella direzione.
La trama è tratta dall’unica opera di fiction dello scrittore e
giornalista ceco Egon Erwin Kisch, pubblicata nel 1914 – a un anno di distanza
dal più grosso scoop della sua carriera di giornalista, quando aveva scoperto
lo scandaloso affaire del colonnello Redl, un alto ufficiale dell’esercito
austroungarico vittima di un ricatto. La vicenda, che narra di un commissario
della omicidi e del suo figlio illegittimo perduto da anni – il Mädchenhirt (guardiano
di fanciulle, ovvero magnaccia) del titolo – contiene la sua buona dose
di artifizio. Peraltro compensata dai dettagli di vita vissuta di chiara impronta
giornalistica che emergono dallo scenario di bar sordidi e di loschi commerci.
Il magnaccia Jaroslav è interpretato da un giovane attore alle prime armi,
l’olandese Henri Peters-Arnolds. Il commissario è invece una figura
a noi già familiare: Magnus Stifter, molto attivo come attore di cinema
a partire dal 1914, e regista di due “star-vehicles” per Asta Nielsen, Dora
Brandes e Das Liebes-ABC (1916).
Da notare, inoltre, il nome della co-sceneggiatrice di Grune, Beate Schach – la
moglie del suo amico, vicino di casa e futuro produttore Max Schach, le cui alterne
fortune industriali in Germania e in Inghilterra, saranno in seguito condivise
da Grune. Già molto prima della morte di Schach, avvenuta nel 1957, Beate
era diventata la compagna di Grune. Quando Schach morì, i due si sposarono;
e alla morte di Grune, lei si tolse la vita. Un triangolo degno di uno dei suoi
Kammerspiel – teso, intimo, intessuto di gioia e disperazione.
Geoff Brown
Karl Grune (Vienna, 1890–1962, Bournemouth, Inghilterra).
Benché oggi sia in larga misura dimenticato, Grune fu una figura molto
importante nel panorama culturale del cinema tedesco degli anni ’20. Nei
suoi film, che si distinguevano per l’uso molto parco di didascalie e dialoghi,
Grune affidava la narrazione e l’atmosfera agli ingegnosi movimenti di
macchina, alle luci e agli effetti visivi. Ebbe una formazione da attore, e passò tre
anni nei teatri di provincia prima di essere ingaggiato dal Volksbühne di
Vienna, dove fu anche regista. Alla fine della guerra, si trasferì a Berlino,
dove lavorò, come attore e come regista, dapprima per il Deutsches Theater
e in seguito anche per il Residenz-Theater. Nel 1919, dietro raccomandazione
di Max Schach (critico cinematografico e teatrale del Berliner Tageblatt),
Grune divenne sceneggiatore per la Berliner Film-Manufaktur di Friedrich Zelnik,
passando poi alla regia con Der Mädchenhirt (1919). Tre anni dopo,
lui e Schach fondarono insieme la Stern-Film GmbH. Lavorando a stretto contatto
col cameraman Karl Hasselmann, suo collaboratore in undici film, Grune realizzò la
sua opera più famosa, Die Strasse (La strada, 1923) – una
meditazione sulle tentazioni notturne e i pericoli della città moderna,
che aprì il filone dei cosiddetti film ‘di strada’. La sua
vena avventurosa continuò con Arabella, derRoman eines Pferdes (1924),
un melodramma sperimentale raccontato dal punto di vista di un cavallo, e con Die
Brüder Schellenberg (1926) sul tema del doppelgänger. Con Königin
Luise (Maria Luisa di Prussia, 1927) si cimentò nel genere
storico spettacolare; Waterloo (id. 1928), parimenti sontuoso,
era in larga misura ispirato al Napoléon di Abel Gance, ricorrendo
in alcune scene a un analogo uso dello schermo triplo.
Grune mantenne costantemente i suoi legami professionali con Schach. E dopo che
Schach fu nominato direttore generale degli studi Emelka di Monaco, Grune ne
divenne il capo della produzione. Emigrato in Inghilterra all’avvento del
nazismo, raggiunse le fila degli altri émigrés che lavoravano per
le due nuove case di produzione di Schach, la Capitol Film Corporation e la Trafalgar
Film Productions. Grune diresse tre sontuosi drammi in costume: Abdul the
Damned (1935), una parabola abbastanza esplicita sulla dittatura hitleriana,
trasposta nella Turchia dell’800, con Fritz Kortner; Pagliacci (1936),
un adattamento dell’opera di Leoncavallo con Richard Tauber, girato parzialmente
a colori; e The Marriage ofCorbal (1936), un cappa e spada
ambientato ai tempi della rivoluzione francese con Ernst Deutsch. Grune divenne
il direttore artistico della Capitol e assunse la nazionalità inglese.
Tuttavia, i suoi film si rivelarono dei clamorosi fiaschi commerciali, e il collasso
delle imprese di Schach scatenò un terremoto finanziario che coinvolse
tutta l’industria cinematografica britannica. La carriera registica di
Grune non si risollevò mai più. Nel 1947 riprese per un breve periodo
l’attività di produttore con il dramma realista scozzese The
Silver Darlings ma un progetto biblico da lui a lungo accarezzato, From
Beginning to Beginning, rimase nel limbo. (Estratto da ConciseCineGraph,
a cura di Hans-Michael Bock, Oxford/New York: Berghahn Books, 2008)
Questo film costituisce un’anteprima dell’edizione 2007 di CineFest – Internationales
Festival des deutschen Film-Erbes, il festival internazionale che promuove il
patrimonio cinematografico tedesco e che si terrà il prossimo novembre,
dal 17 al 25, ad Amburgo, e quindi a Berlino, Zurigo, Praga e Vienna. Der
Mädchenhirt, girato da una troupe tedesca a Praga, è uno dei
primi frutti degli stretti e sfaccettati rapporti di collaborazione che hanno
caratterizzato l’attività dell’industria cinematografica ceca,
austriaca e germanica lungo tutto il XX secolo – una storia complessa e
comune che è il tema del Cinefest di quest’anno. La manifestazione è organizzata
da CineGraph (Amburgo) e dal Bundesarchiv-Filmarchiv (Berlin) con partner internazionali.
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Prog.
2
EIN GLAS WASSER (Das Spiel der Königin) (Decla-Bioscop
AG, Berlin, per/for Universum-Film AG (Ufa), Berlin, DE 1923)
Regia/dir: Ludwig Berger; prod: Erich Pommer; scen: Ludwig
Berger, Adolf Lantz, dalla pièce/from the play Le Verre
d’eau di/by Eugène Scribe; f./ph: Günther
Krampf, Erich Waschneck; scg./des: Hermann Warm, Rudolf Bamberger; cost: Karl
Töpfer, Otto Schulz; cast: Mady Christians (Regina Anna/Queen
Anne), Lucie Höflich (Duchessa di Marlborough/Duchess of
Marlborough), Hans Brausewetter (John William Masham), Rudolf Rittner
(Lord Bolingbroke), Helga Thomas (Abigail), Hugo Döblin (gioielliere/jeweller Tomwood),
Hans Wassmann (Lord Richard Scott), Bruno Decarli (Marquis von Torcy),
Max Gülstorff (Thompson), Franz Jackson (Hassan), Josef Römer,
Gertrud Wolle; riprese/filmed: 1922; data v.c./censor date: 19.1.1923; première: 1.2.1923,
Ufa-Palast am Zoo, Berlin; lg. or./orig. l.: 2558 m.; 35mm,
2537 m., 110’ (20 fps); fonte copia/print source:Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung,
Wiesbaden.
Didascalie in tedesco / German intertitles.
Nel 1923, mentre in Germania infuriavano inflazione e malumore politico,
presentando il suo adattamento di Le verre d’eau, una
farsa di Eugène Scribe vecchia di 80 anni, Ludwig Berger predicava
il vangelo dell’evasione: “Nei tempi di miseria e di oppressione,
ancor più che nei tempi di benessere e sicurezza, abbiamo bisogno
di serenità e di leggerezza”. La supposta fuga dalla realtà dei
Romantici, dichiarò, era servita da “cibo e sostegno durante
interi decenni di povertà esteriore” e da “ponte verso
un futuro migliore”. E altrettanto egli si augurava per Ein
Glas Wasser (Un bicchiere d’acqua) – una commedia
di grande raffinatezza formale, basata su un intrigo politico/amoroso
e ambientata in Inghilterra, all’inizio del 18° secolo, durante
il regno della regina Anna e la guerra di successione spagnola. Motore
dell’intreccio è il bel Masham, un giovane cortigiano che
attira le attenzioni amorose sia della regina Anna che della risoluta
duchessa di Marlborough, la donna che detiene il potere all’ombra
del trono. Ma il cuore di Masham batte per l’umile Abigail, mentre
un altro intrigante cortigiano, Lord Bolingbroke, cerca di usare Masham
per abbattere il potere della duchessa…
Agli occhi di un osservatore severo e sprovvisto di humour quale Siegfried Kracauer,
i voli di tal fatta verso luoghi di amene evasioni avrebbero implicitamente spianato
la strada a Hitler. E forse, a un certo livello, fu proprio così. Ma la
maggior parte dei cinéastes odierni sarà lieta di apprezzare l’immaginazione,
la fantasia, la leggerezza e la musicalità che Berger riesce a trasmettere
al flusso narrativo della vicenda, ai personaggi e alle immagini del suo terzo
lungometraggio. Benché avesse riscosso i suoi primi successi a teatro,
Berger usa il cinema per liberare ed espandere il suo testo teatrale, e non per
inchiodarlo al palcoscenico. I risultati raggiunti da Berger ebbero un immediato
riconoscimento. C. Hooper Trask, che all’epoca era il corrispondente di Variety a
Berlino, definì Ein Glas Wasser “uno dei migliori film
d’atmosfera mai realizzati in Germania o altrove”; per il critico
tedesco Herbert Ihering, il film introdusse per la prima volta la poesia del
movimento nel cinema tedesco. Una delle principali componenti dell’atmosfera
magica del film è la graziosa Mady Christians (la regina Anna) che interpreterà altri
ruoli di regine per Berger nel decennio successivo (Ein Walzertraum [Sogno
di un valzer]; Die Jugend der Königing Luise). La fotografia
di Günther Krampf e Erich Waschneck, insieme con le scenografie di Hermann
Warm e Rudolf Bamberger (fratello di Berger), aggiunsero il loro prezioso contributo,
blandendo l’occhio dello spettatore con la sapida opulenza del barocco
della Germania meridionale. Ma innanzitutto, c’è Berger, che guida,
equilibra e miscela, mostrandoci come sia possibile fare un film intrinsecamente
musicale con la sola musicalità delle immagini. – Geoff Brown
Ludwig Berger (Ludwig Gottfried Heinrich Bamberger; Magonza
1892 – Schlangenbad 1969) raggiunse la notorietà come regista teatrale
a Berlino, soprattutto grazie a una serie di importanti allestimenti scespiriani
realizzati con la collaborazione del fratello Rudolf Bamberger, costumista e
scenografo. Dopo il suo debutto cinematografico, avvenuto nel 1920 con Der
Richter von Zalamea, realizzò tre sontuose produzioni con un cast “all-star” per
la Decla-Bioscop di Erich Pommer, coronate dal successo di Ein Glas Wasser e
da una gustosa versione della fiaba di Cenerentola, Der verlorene Schuch (Cenerentola,
1923). Ein Walzertraum (Sogno di un valzer, 1925), ironica
rivisitazione introspettiva dell’operetta di Oscar Straus fu un altro rilevante
successo. Sedotto da Hollywood, Berger vi girò cinque film per la Paramount,
sia muti che sonori: ma esportare la musicalità e la qualità favolistica
dei suoi film tedeschi si rivelò un’impresa ardua. Rientrato in
Europa, ottenne un modesto successo di stile trionfalistico con Ich bei Tag
und Du beiNacht (1932), una commedia musicale ambientata in epoca
moderna e girata in versione trilingue per la UFA. I suoi anni da émigré in
Olanda furono abbastanza difficili. Da intransigente perfezionista quale era,
Berger patì moltissimo per le continue interferenze del produttore Alexander
Korda sul set della produzione inglese di The Thief of Bagdad (Il
ladro di Bagdad, 1940) – un’esperienza umiliante per Berger
(che alla fine dovette dividere il credit della regia del film con Michael Powell
e Tim Whelan). Durante l’occupazione nazista dei Paesi Bassi riuscì a
sopravvivere usando documenti contraffatti. Tornato in Germania nel 1947, lavorò soprattutto
per la televisione. Divenne un pioniere del dramma televisivo della Germania
occidentale e nel bienno 1957-1958 produsse una pregevole serie di commedie scespiriane,
che completò il cerchio della sua carriera. In retrospettiva, il sentimento
predominante riguardo alla sua esperienza cinematografica si esemplifica bene
col titolo del relativo capitolo delle sue memorie, redatte nel 1953: “Il
circo delle pulci”.
(Estratto da ConciseCineGraph).
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Prog.
3
RIVALEN (Apex Film Company Limited, Berlin, DE 1923)
Regia/dir: Harry Piel; prod: Harry Piel, Louis Zimmermann,
Heinrich Nebenzahl; scen: Alfred Zeisler, Victor Abel, [Harry
Piel]; f./ph: Georg Muschner; scg./des: Hermann
Warm, Albert Korell; acrobazie/stunts: Hermann Stetza; cast: Harry
Piel (Harry Peel), Adolf Klein (Professor Ravello), Inge Helgard (Evelyn),
Charly Berger, Karl Platen, Heinz Stieda, Albert Paulig, Maria Wefers,
Erich Sandt; riprese/filmed: 10.1922-1.1923; data v.c./censor
date: 23.2.1923; première: 23.2.1923, Berlin (Schauberg); lg.
or./orig. l.: 2476 m.; 35mm, 2437 m., 105’ (20 fps); fonte
copia/print source: Bundesarchiv-Filmarchiv, Berlin.
Didascalie in tedesco / German intertitles.
Le opere gravide di simboli, ombre e miti, non facevano per Harry Piel.
Già a partire dai titoli, i suoi film proclamavano il loro contenuto
con la malizia strategica di un romanzo poliziesco da quattro soldi o
di un poster di circo. The Flying Car.The Black Envelope.
Zigano, Brigandof Devil’s Mountain. Queste
sigle annunciavano prodotti popolari di rapido consumo basati sulla formula ‘avventure
mozzafiato e capitomboli a rotta di collo’. Perfino Siegfried Kracauer,
negli anni ’20, mostrò un debole per quei film, lodando
la loro assenza di pretese in una cinematografia nazionale che stravedeva
per la pomposità artistica. “Brillante e allegra paccottiglia”,
li definì.
Attore, produttore e regista, fin dai suoi esordi Piel impostò la propria
carriera sotto il segno di culture popolari diverse da quella tedesca. Anche
il suo nome si era costantemente anglicizzato: Heinrich Piel divenne Harry Piel,
e, in alcune occasioni, o sulle copie destinate al mercato estero, Harry Peel.
Si ispirò in larga misura a Sherlock Holmes e ai serial americani. Le
prodezze acrobatiche e lo slancio atletico di cui dava sfoggio nei suoi film
spinsero i cronisti dell’epoca a chiamarlo “il Douglas Fairbanks
tedesco”, anche se il parallelo era abbastanza improprio. Piel, ad esempio,
non mostrò alcuna propensione per l’estetismo puramente ornamentale
del Fairbanks di The Thief of Bagdad (Il ladro di Bagdad – Raoul
Walsh, 1924). Né Fairbanks si fece mai tentare dalla fantascienza, dagli
scienziati pazzi e dai robot come questo, peraltro delizioso, film di Piel.
In Rivalen e nel suo sequel Der letzte Kampf (distribuito a
un mese di distanza), Piel fece un notevole sforzo per migliorare gli standard
qualitativi dei suoi film. Basta osservare la fantasiosa modernità dei
set disegnati da Hermann Warm per la spettacolare scena nel salone da ballo;
l’ingegnosità delle riprese, e la vivace esuberanza delle acrobazie
dello stesso Piel (messe a punto con l’aiuto del suo collega Hermann Stetza).
Questo non significa che Piel avesse accantonato del tutto le banalità.
Per quanto riguarda la trama, attinse a uno dei suoi primi successi, Diegrosse
Wette (1916), un’avventura futuristica ambientata nell’America
dell’anno 2000. Ma anche se il ‘dove’ e il ‘quando’ della
vicenda di Rivalen non appaiono immediatamente evidenti, si tratta comunque
di un luogo e di un tempo abitati da figure a noi piacevolmente familiari. C’è infatti
lo scienziato pazzo dalle manie di onnipotenza, il Professor Ravello, con il
suo robot predatore. C’è Evelyn, la fanciulla graziosa in pericolo
(qui sfortunato oggetto del desiderio di Ravello). Oltre all’aitante Harry,
l’eroe coraggioso, che per lei affronta una serie di prove terribili, culminanti
in un quasi esiziale soffocamento subacqueo dentro una gabbia di vetro.
In una delle scene più spericolate del film si vede un’automobile
che, da un ponte sospeso, precipita nell’acqua. Le riprese avvennero a
Kalksee, una località ad est di Berlino, dove la macchina è rimasta,
sommersa e dimenticata, fino al 1963, l’anno della morte di Piel, quando
alcuni subacquei alla ricerca d’altro la scoprirono per caso. Si trattò di
un sorprendente memento fisico di quella che, fino ad allora, era stata una carriera
invisibile. La maggior parte dei negativi dei suoi film sono andati distrutti
nei bombardamenti della seconda guerra mondiale; e quelli purtroppo, neanche
la straordinaria ingegnosità di Harry Piel, ce li potrebbe restituire. – Geoff
Brown
Harry Piel (Heinrich Piel; Düsseldorf-Benrath, 1892-1963,
Monaco) nei primi anni di carriera si guadagnò il soprannome di “Regista
Dinamite” per le frequenti esplosioni che caratterizzavano i suoi spettacolari
film d’avventura e serial polizieschi. I cui altri ingredienti abituali
erano le acrobazie, gli animali selvaggi, i panorami esotici e le trame movimentate – e,
naturalmente, lo stesso Piel nelle vesti del protagonista. Con un palmarès
di oltre 100 film – e una carriera quarantennale che ha attraversato l’epoca
guglielmina, Weimar, il nazismo e il secondo dopoguerra – rappresentò egli
stesso un genere popolare a se stante.
Dopo la scuola, Piel prestò servizio in marina, frequentò alcuni
corsi di commercio e prese il brevetto di pilota acrobatico. Attività che,
una volta combinate insieme, si rivelarono preziose per la sua carriera. Esordì nel
1912 con Schwarzes Blut, da lui prodotto, diretto e sceneggiato. Die
grosse Wette (1916) segnò il suo debutto nella fantascienza; e nello
stesso anno, in Unter heisser Zone, apparvero le prime audaci scene
acrobatiche con gli animali feroci.
Dopo aver diretto, per Joe May, 8 film polizieschi della serie del detective
Joe Deebs, iniziò a creare le proprie avventure come Harry Piel; realizzò di
persona quasi tutte le scene acrobatiche dei suoi film e divenne una star di
fama internazionale. Alcuni film lo videro impegnato in doppi ruoli, come Sein
grösster Bluff (1927), dove era affiancato da una giovane Marlene Dietrich.
Piel si adattò senza problemi al sonoro, con la commedia di identità scambiate Er
oder Ich (1930). I film di animali e di circo continuarono negli anni del
nazismo, con titoli quali Der Dschungel ruft and Menschen, Tiere e Sensationen. Ein
Unsichtbarer geht durch die Stadt (1933) fu uno dei rari film di fantascienza/fantasy
dell’epoca. Nel 1943, il suo Panik, una storia patriottica su
un acchiappa-animali, venne proibito perché la censura ritenne che le
realistiche scene di raid aerei del film potessero minare il morale del pubblico.
Alla fine della guerra, Piel fu imprigionato per 6 mesi come “simpatizzante” del
nazismo e interdetto dal lavoro per 5 anni. Nel 1950 fondò una nuova casa
di produzione, la Ariel-Film; ma i tempi erano mutati. Il suo genere di cinema
popolare non attirava più gli spettatori; né poteva ormai lo stesso
Piel, che era sempre stato un po’ grassottello e ora stava visibilmente
invecchiando, risultare convincente nei panni dello scavezzacollo. Il film della
sua rentrée, Der Tiger Akbar (1951), per adeguarsi allo scorrere
del tempo, era impostato su un tragico idillio tra un addestratore di animali
e una collega più giovane. Il suo ultimo lavoro di una certa importanza, Gesprengte
Gitter – Die Elefanten sind los (1953), era una versione rimaneggiata
dell’inedito Panik. Durante gli anni ’50, Piel realizzò ancora
qualche cortometraggio, prima di ritirarsi del tutto alla fine del decennio.
(Estratto da Concise CineGraph)
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Prog.
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BUDDENBROOKS (Dea-Film GmbH Albert Pommer,
Berlin, per/for Universum-Film AG (Ufa), Berlin, DE 1923)
Regia/dir: Gerhard Lamprecht; prod: Albert Pommer; scen:
Alfred Fekete, Luise Heilborn-Körbitz, Gerhard Lamprecht, dal
romanzo di/from the novel by Thomas Mann; f./ph: Erich Waschneck,
Herbert Stephan; scg./des: Otto Moldenhauer; cast: Peter
Esser (Thomas Buddenbrook), Mady Christians (Gerda Arnoldsen), Alfred Abel
(Christian Buddenbrook), Hildegard Imhoff (Tony Buddenbrook), Mathilde
Sussin (Elisabeth Buddenbrook), Franz Egénieff (armatore/shipowner Arnoldsen),
Rudolf del Zopp (Console/Consul Kröger), Auguste Prasch-Grevenberg
(Babette), Ralph Arthur Roberts (Bendix Grünlich), Charlotte Böcklin
(Aline Puvogel), Karl Platen (procuratore/clerk Marcus), Kurt
Vespermann (Renée Throta), Elsa Wagner (Sesemi Weichbrodt), Rudolf
Lettinger (postiglione / coachman Grobleben), Emil Heyse (Kesselmeyer),
Friedrich Taeger (Borgomastro/Burgomaster Oeverdieck), Philipp
Manning, Hermann Vallentin (Smith), Robert Leffler (Capitano/Captain Kloot); riprese/filmed: 1923; data
v.c./censor date: 16.8.1923; première: 31.8.1923,
Tauentzien-Palast, Berlin; lg. or./orig. l.: 2383 m.; 35mm, 2301
m., 85’ (24 fps), col. (imbibizione originale riprodotta su pellicola
a colori/printed on colour stock, reproducing original tinting); fonte
copia/print source: Deutsche Kinemathek, Berlin. Didascalie in tedesco
/ German intertitles.
Due poderosi volumi nella prima edizione, pubblicata alla
fine del 1900. Un totale di 1105 pagine. Le dimensioni del primo romanzo
di Thomas Mann, Die Buddenbrooks [I Buddenbrooks], pur senza considerare
la fama del libro e del suo autore, farebbero tremare i polsi anche a un
regista di oggi. Venticinquenne all’epoca in cui venne realizzata
questa prima riduzione per lo schermo del romanzo di Mann, il regista Gerhard
Lamprecht e il produttore Albert Pommer (il fratello maggiore di Erich
Pommer) procedettero con la masima riflessione e cautela. Dal romanzo fiume
di Mann, dettagliata cronistoria di una ricca famiglia di mercanti di Lubecca
che subisce un lento declino economico, spirituale e fisico nel corso di
quattro generazioni, la sceneggiatura estrasse la storia di Thomas Buddenbrook,
un esponente della terza generazione. E l’ambientazione ottocentesca
venne aggiornata ai primi anni del Novecento. Mann, cui fu sottoposta la
sceneggiatura, dette il suo assenso a tutti cambiamenti, anche là dove
Lamprecht aveva segretamente sperato in qualche suo intervento migliorativo.
E anche il prodotto finale, il film Die Buddenbrooks, non scalfì l’interesse
di Mann sulle potenzialità artistiche del cinema: scrivendone nel
1928, sollecitava i registi ad affrontare altri suoi romanzi, in particolare “Der
Zauberberg” (La montagna incantata). (Nessuno lo ha fatto fino al
1967, con un film televisivo di produzione tedesca).
Per quale motivo Thomas Mann si era mostrato così arrendevole nei confronti
del progetto e dello script di Die Buddenbrooks? Forse aveva colto la
grande attenzione di Lamprecht per i dettagli realistici – qualità che
emerge in tutti i suoi film migliori. Per conferire precisione e sostanza al
suo ritratto della società borghese di Lubecca – lo stesso mondo
in cui era nato – Mann aveva svolto un’ampia ricerca sull’economia
cittadina, sui prezzi delle merci e altre cose simili. Lamprecht, nel suo specifico,
assicurò un’analoga precisione girando gli esterni e buona parte
degli interni del film nella splendida cornice anseatica di Lubecca. Man mano
che la cinepresa segue le vicissitudini di Thomas Buddenbrook (la moglie negletta,
il fratello ribelle Christian, l’importazione di grano dall’Argentina
decisa dal senato di Lubecca…) si evidenzia l’abilità di
Lamprecht nel catturare l’essenza della quotidianità e i continui
mutamenti psicologici e ambientali. Ed è questa caratteristica che unisce
la borghesia della Lubecca di Mann agli sgambettanti bambini berlinesi di Emil
und die Detektive (La terribile armata, 1931), il film più famoso
di Lamprecht.
Un altro grande pregio di Die Buddenbrooks è il suo cast. Peter
Esser, che interpreta Thomas, non ebbe una carriera cinematografica di rilievo,
ma gli altri interpreti, oltre ad avere dei volti a noi piacevolmente familiari,
sono tutti attori di indubbio talento: Alfred Abel (il glaciale padrone di Metropolis)
qui nei panni del problematico Christian; il popolare e versatile Ralph Arthur
Roberts in quelli di Grünlich, l’ambiguo cognato di Thomas; e Mady
Christians, che soffre dignitosamente, con magnifica compostezza, nel ruolo della
moglie negletta di Thomas. Loro li cerchereste invano nelle 1105 pagine di Mann. – Geoff
Brown
Gerhard Lamprecht (Berlino, 1897-1974, Berlino) eccelse nei
drammi realistici che riproducevano ambienti e personaggi della vita di tutti
i giorni. Proiezionista part-time fin dall’età di 12 anni, a 17
aveva già venduto il suo primo script, alla Eiko-Film. Nel 1917, mentre
lavorava come sceneggiatore presso la Messter-Film, fu richiamato e spedito a
combattere sul fronte di guerra; ricoverato in un ospedale militare, continuò a
lavorare, scrivendo, tra gli altri, Der Weltspiegel (1918), realizzato
da Lupu Pick. Lamprecht divenne in seguito lo sceneggiatore capo della Rex-Film
di Pick, per conto della quale supervisionò anche la produzione di alcuni “star-vehicles” per
l’attore Bernd Aldor.
Lamprecht debuttò nella regia con Es bleibt in der Familie (1920),
realizzato per la casa di produzione di Paul Heidemann. Sbancò i botteghini
con un paio di sbrigativi film di “confessioni” con Ruth Weyer (Die
Beichte einer Mutter, e Die Beichte derKrankenschwester,
entrambi del 1921). Il suo talento per il dramma realistico emerse ulteriormente
con Die Buddenbrooks (1923), da Thomas Mann. Die Verrufen (1925),
nato da una collaborazione con l’illustratore e scrittore Heinrich Zille,
dette il via al filone tedesco dei film di denuncia sociale che puntavano il
dito sulle dure condizioni di vita degli operai nelle grandi città. Forte
del proprio successo, fondò una casa di produzione, la Gerhard Lamprecht-Filmproduktion,
per la quale realizzò Menschen untereinander, ambientato in un
casamento popolare, e Die Unehelichen, basato sui resoconti di una “Associazione
per la prevenzione della violenza e dello sfruttamento del bambino”. Quando
il mercato venne inondato di analoghi prodotti “alla Zille”, Lamprecht
passò al melodramma (DerKatzensteg) e a film di ambiente
militare prussiano (tra cui le due parti di Der alte Fritz, 1927). Il
suo maggiore successo internazionale fu il film sonoro Ufa Emil und die Detektive (1931),
da uno script di Billie Wilder basato sul popolare romanzo per ragazzi di Erich
Kästner.
Durante gli anni del nazismo, Lamprecht divenne un pedestre anche se abile regista
di film di genere, con occasionali adattamenti da opere letterarie quali Madame
Bovary (id. 1937) e DerSpieler (Il giocatore,
1938). Le opere migliori di quel periodo furono due melodrammi di ambiente operaio: Frau
im Strom (1939) e Du gehörst zu mir (1943). Dopo la seconda
guerra mondiale, Lamprecht realizzò per la DEFA il “film di macerie” Irgendwo
inBerlin (1946), che si ispirava palesemente a Emil und die
Detektive, e continuò a realizzare film di assoluto disimpegno fino
alla metà degli anni ’50.
Fu collezionista di film e memorabilia del cinema fin dai primi anni ’10,
e il suo catalogo in dieci volumi sui film tedeschi dell’epoca del muto,
pubblicato tra il 1967 e il 1970 dalla Deutsche Kinemathek di Berlino (alla cui
costituzione contribuì in prima persona), rimane tuttora un esemplare
modello di riferimento. (Estratto da Concise CineGraph) |
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Prog.
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DAS ALTE GESETZ (Baruch) (Comedia-Film
GmbH, Berlin, DE 1923)
Regia/dir: Ewald André Dupont; scen: Paul Reno,
dalle memorie di/from the memoirs by Heinrich Laube; f./ph:
Theodor Sparkuhl; scg./des: Alfred Junge, Curt Kahle; cost: Ali
Hubert; cast: Ernst Deutsch (Baruch), Henny Porten (Erzherzogin/Archduchess Elisabeth
Theresia), Ruth Weyher (dama di corte/Lady in waiting), Hermann
Vallentin (Heinrich Laube), Avrom Morewsky (Rabbi Mayer), Grete
Berger (sua moglie/his wife), Robert Garrison (Ruben Pick), Fritz
Richard (Nathan), Margarete Schlegel (Esther), Jakob Tiedtke (direttore
della compagnia teatrale/Director of the theatre company), Olga
Limburg (seine Frau/his wife), Alice Hechy (la figlia/their
daughter), Julius M. Brandt (il vecchio attore/old comedian),
Robert Scholz, Alfred Krafft-Lortzing, Dominik Löscher, Philipp Manning,
Wolfgang Zilzer, Kálmán Zátony; riprese/filmed: 1923; data
v.c./censor date: 18.10.1923; première: 29.10.1923,
Marmorhaus, Berlin; lg. or./orig. l.: 3028 m.; 35mm, 2920 m.,
107’ (24 fps); fonte copia/print source:Deutsche Kinemathek,
Berlin.
Didascalie in tedesco / German intertitles.
Nei tardi anni ’20, all’epoca del suo massimo
trionfo, E.A. Dupont divenne tristemente famoso tra le maestranze della
British International Pictures per i suoi capricci da tiranno, sollevando
interminabili discussioni sui minimi particolari della disposizione delle
luci, o lasciando lo staff tecnico con le mani in mano per ore mentre il
grande maestro aspettava l’ispirazione. Ma prima del successo mondiale
di Varieté (1925), la produzione artistica e le maniere
di Dupont erano state decisamente più terra terra. Aveva esordito
nel 1918 dirigendo un cospicuo numero di film polizieschi, basati su script
sbrigativi di sua ideazione, che non avevano mai attirato l’attenzione
della critica. La situazione cambiò significativamente dopo il fortunato
sodalizio siglato con la diva (e produttrice) Henny Porten. Die Geier-Wally,
primo di una lunga serie di adattamenti cinematografici da un popolare
romanzo del filone Heimat, apparve nel 1921. Ma fu Das alte Gesetz,
con la Porten e Ernst Deutsch, a consolidare la fama di Dupont.
Come Varieté, il film è ambientato nel mondo dello spettacolo,
anche se qui non assistiamo alle esibizioni di artisti del trapezio, giocolieri
o altre attrazioni del vaudeville. Lo script di Paul Reno traeva ispirazione
da un testo autobiografico di Heinrich Laube, che raccontava i momenti clou della
sua movimentata carriera teatrale come direttore del Burgtheater di Vienna, negli
anni ’70 dell’800. Il Lauber cinematografico di Hermann Vallentin
ricalca i soliti cliché dello show business: l’impresario brusco
di modi, ma dal cuore d’oro. Una dicotomia più sottile emerge invece
dalla figura di Baruch (Ernst Deutsch), un aspirante attore, che per seguire
la propria vocazione teatrale sfida l’ira del padre rabbino. (Pochi anni
dopo, Al Jolson in The JazzSinger dovrà vedersela con
un problema analogo.) Dupont, il suo cameraman Theodor Sparkuhl, e i suoi scenografi
Alfred Junge e Curt Kahle danno prova di grande ingegnosità nel delineare
il conflitto che emerge tra i due mondi. Lo shtetl dell’Europa dell’est – la
casa natia di Baruch e la radice della “vecchia legge” che dà il
titolo al film – contrapposto al milieu teatrale di Vienna e alle attrattive
dell’arciduchessa Elisabeth (Henny Porten). Lo stesso Baruch, in quanto
ebreo ortodosso, è un uomo diviso, sempre ai margini della brillante società viennese.
In questo film di svolta, la padronanza tecnica di Dupont non ha ancora acquisito
la fluidità di movimento, la profondità psicologica, e la forza
propulsiva che troveranno la loro straordinaria compiutezza in Varieté.
E tuttavia anche qui – nella accurata composizione delle immagini, nell’attenzione
dedicata ai significati emozionali della struttura, della luce, e dell’ombra – vediamo
già emergere in nuce lo stile di Dupont.
I ruoli che aveva interpretato nella pièce Der Sohn di Walter
Hasenclever e nel film di Karlheinz Martin tratto da Von Morgen bis Mitternacht di
Georg Kaiser avevano procurato a Ernst Deutsch la fama di attore “espressionista”.
Ma Dupont e la cinepresa di Sparkuhl gli aprirono una strada diversa, indirizzandolo
verso il realismo psicologico e la manifestazione del pensiero, piuttosto che
verso gli stati di intensa esaltazione emotiva.
Dopo aver ignorato i film polizieschi di Dupont, i critici tedeschi tributarono
al regista di Das alte Gesetz una serie di articoli encomiastici, elogiando
in modo particolare la sua padronanza delle atmosfere e dei dettagli. “Un
libro illustrato di gusto squisito”, dichiarò il Film-Kurier.
Nel 1924, invece di consolidare il suo nuovo status, Dupont impresse una nuova
svolta alla sua carriera e divenne direttore e impresario dell’Apollotheater
di Mannheim, accumulando l’esperienza necessaria per realizzare il film
che gli dette una sconvolgente notorietà mondiale: Varieté.
Il cinema e la vita di Dupont non sarebbero mai più stati gli stessi. – Geoff
Brown
Ewald André Dupont (Zeitz, Sassonia-Anhalt, 1891-1956,
Los Angeles) iniziò la sua carriera come giornalista nel 1911, scrivendo
per alcuni giornali di Berlino; e dal 1915 tenne regolarmente una rubrica di “arti
dello spettacolo e cinema” sul quotidiano Bild Zeitung am Mittag.
Nel 1916 esordì come sceneggiatore, soprattutto di serial polizieschi;
e scrisse tre sequel del fortunato Es werde Licht!, film di ‘illuminazione
sessuale’ di Richard Oswald. Nel 1918, scritturato dalla casa di produzione
Stern-Film, cominciò a scrivere – e in un secondo tempo anche a
dirigere – una lunga serie poliziesca con Max Landa (ne girò dodici
episodi in due anni). La successiva esperienza con la Gloria-Film alzò il
livello delle sue produzioni, ma la notorietà gli giunse solo con i due “star-vehicles” girati
per Henny Porten Die Geier-Wally (1921) e Das alte Gesetz (1923).
Nel 1925, Dupont ottenne un successo internazionale con Varieté,
prodotto da Erich Pommer per la Ufa. La Universal Pictures lo invitò a
Hollywood, ma la sua prima committenza americana, Love Me and the World Is
Mine, si rivelò un insuccesso. Ritornato in Europa, andò a
lavorare in Inghilterra, presso il nuovissimo studio di Elstree della British
International Pictures (BIP). Nel 1928, i suoi sofisticati melodrammi MoulinRouge e Piccadilly servirono
da “star-vehicles” per Olga Tschechowa e Anna May Wong, e lanciarono
la carriera inglese dello scenografo tedesco Alfred Junge. Con Atlantic (La
tragedia dell’Atlantic, 1929), il suo film epico sul disastro del
Titanic, girato in doppia versione inglese e tedesca, Dupont svolse un ruolo
chiave nella conversione al sonoro dello studio di Elstree; e la versione tedesca,
reclamizzata come “il primo film tedesco interamente sonorizzato al 100%”,
si rivelò estremamente redditizia sul mercato continentale. Il film contrariò la
critica per il ritmo frenetico delle scene dialogate; e neanche le sue due successive
produzioni multilingue targate BIP, Two Worlds (Due mondi)
e CapeForlorn (Fortunale sulla scogliera) furono accolte
con favore; ma per qualche tempo Dupont continuò comunque a rappresentare
un trofeo illustre per uno studio che ambiva al prestigio internazionale.
Tornato in Germania, diresse il melodramma sul circo Salto Mortale (id. 1931)
e, in concomitanza con i Giochi Olimpici di Los Angeles, il film sportivo Der
Läufer vonMarathon (1932-33). Hollywood lo chiamò di
nuovo, ma, poiché lo si considerava un regista “difficile”,
gli furono affidati solo progetti di scarsa importanza. Dopo essere stato licenziato
per i contrasti sorti durante la produzione di Hell’s Kitchen (1939),
tornò a dirigere film solo nel 1951 (il modesto dramma The Scarf).
A questo seguirono solo produzioni di serie B quali The Neanderthal Man.
Il nome di Dupont figurerà per l’ultima volta nei titoli di testa
di una produzione mainstream come sceneggiatore di MagicFire (1955)
biografia wagneriana di William Dieterle – un finale di carriera abbastanza
amaro per un talento che una volta aveva brillato di un suo “fuoco magico”.
(Estratto da ConciseCineGraph) |
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LUMPEN UND SEIDE (De Klaplooper / Una coppa
di champagne) (Richard Oswald-Film AG, Berlin, DE 1925)
Regia/dir: Richard Oswald; scen: Adolf Lantz, Heinz
Goldberg, da un’idea di/from an idea by Richard Oswald; f./ph:
Mutz Greenbaum, Emil Schünemann; scg./des: Kurt Richter; cast: Reinhold
Schünzel (Max), Mary Parker (Irene), Johannes Riemann (Erik), Einar
Hanson (Werner), Maly Delschaft (Ulrike), Mary Kid (Hilde, una ragazza
del popolo/a girl of the people), Ferdinand Bonn (il padre di
Hilde/Hilde’s father); riprese/filmed: 1924; data
v.c./censor date: 2.12.1924; première: 9.1.1925,
Richard-Oswald-Lichtspiele, Alhambra Kurfürstendamm, Berlin; lg.
or./orig. l.: 2456 m.; 35mm, 1748 m., 69’ (22 fps); fonte
copia/print source: Bundesarchiv-Filmarchiv, Berlin.
Didascalie in olandese / Dutch intertitles.
Lumpen und Seide significa “stracci e seta”, e sul
filo di questo sottile contrasto si dipana anche il brioso Sittenfilm (di puro
intrattenimento, con vaghi sottintesi di carattere sessuale e morale) di Richard
Oswald – una favola moderna, a partire dalla didascalia descrittiva iniziale
fino all’esplosione di felicità del suo lieto finale. Stracci e
seta, i poveri e i ricchi. Ed anche all’interno dell’ambientazione
berlinese del film si presentano due località distinte: Wedding, nell’area
di nord-ovest, è un quartiere di estrazione prevalentemente operaia (e
dopo la prima guerra mondiale, di militanza comunista); mentre Grunewald, nell’area
di sud-ovest, è fin dai primi anni del 20° secolo, la verdeggiante
e tranquilla zona residenziale dell’alta borghesia. I due mondi entrano
in contrasto quando Erik (Johannes Riemann), un marito annoiato che vive in una
delle residenze signorili di Grunewald, decide di dare un po’ di mordente
alla propria esistenza invitando una giovane operaia di Wedding, Hilde (Mary
Kid), ad andare ad abitare a Grunewald. La moglie di Erik, Irene (interpretata
da Mary Parker, nom d’art di Magdalena Prohaska) sulle prime si adegua
alla nuova situazione. Ma il quieto vivere non sopravvivrà alla trasformazione
signorile di Hilde e all’apparizione del fidanzato geloso della ragazza,
Max (Reinhold Schünzel, qui alle prese con un’interpretazione comica
riccamente variegata).
Anche se oggi viene ricordato soprattutto per Es werde Licht! e altri
melodrammatici film“educativi” dei tardi anni ’10, Oswald non
fu mai un regista con il capo sotto la sabbia. E tuttavia, Lumpen und Seide,
malgrado la schietta opposizione enunciata nel suo titolo e il suo sguardo acuto
sul comportamento umano, non si spinge mai in profondità nel descrivere
le aspre divisioni sociali dell’epoca. Stracci e seta si sfiorano con leggerezza
in un film concepito unicamente per divertire il grande pubblico e soddisfare
le richieste del mercato. Ciò non di meno, è piuttosto chiaro a
chi vadano le simpatie di Oswald: ai poveri onesti, non ai ricchi in vena di
facezie.
Il critico del Film-Kurier del gennaio 1925 sintetizzò il suo
giudizio definendolo un piacevole passatempo di un’ora, altrettanto impegnativo
quanto dare una scorsa alle pagine illustrate di un buon periodico. Ma perfino
i film banali possono dire ancora molte cose: soprattutto a 82 anni di distanza. – Geoff
Brown
Richard Oswald (Richard W. Ornstein; Vienna, 1880–1963, Düsseldorf)
studiò recitazione a partire dal 1896, e in seguito fece parte di compagnie
di giro come attore e regista. Nel 1911, quando a Vienna si scatenò l’antisemitismo,
Oswald riparò a Düsseldorf, dove recitò in due film. Trasferitosi
a Berlino, nel 1914 iniziò a scrivere sceneggiature per la Deutsche Vitascope,
e nello stesso anno esordì nella regia con il dramma bellico Das eiserne
Kreuz, che ebbe qualche contrasto con la censura. Negli anni seguenti, alternò la
produzione di film polizieschi con progetti più ambiziosi quali l’atmosferico Erzählungen da
Hoffmann (1916) e Das Bildnis des Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray,
1917), da Oscar Wilde. Es werde Licht! (1916), sulla vicenda di un pittore
che contrae la sifilide, dette il via a una serie di Aufklärungsfilme, che
mescolavano temi di educazione sessuale e trame di melodramma. Il più ambizioso
e politicamente progressista dei quali fu Anders alsdie Andern (1919),
che usava la storia di un violinista gay perseguitato da un ricattatore per stimolare
l’abrogazione delle draconiane leggi tedesche sull’omosessualità.
Nel dopoguerra, un breve periodo di rilassamento delle maglie censorie incoraggiò il
fiorire di questo tipo di film, fino a che l’imposizione di nuove regole
non pose fine al boom degli Aufklärungfilme.
Nei primi anni ’20, Oswald girò alcuni ambiziosi film di genere
storico-epico (Lady Hamilton, id., 1921; Lucrezia Borgia, id.,1922).
Ma dopo il fallimento della sua società di produzione, avvenuto nel 1926,
dovete ripiegare su prodotti popolari a basso costo – utili peraltro a
foraggiare la programmazione della sala che gestiva personalmente a Berlino.
Tornò di nuovo al genere storico con la sontuosa produzione di Cagliostro –Liebe
und Leben eines großen Abenteurers (Cagliostro, 1929), girato
in Francia. Adattatosi senza problemi al sonoro, Oswald inizialmente si specializzò in
film operetta e commedie musicali, pur continuando a sviluppare altri soggetti
storici, tra cui Dreyfus (1930), “1914”. Die
letzten Tage vor dem Weltbrand (1931), e Der Hauptmann von Köpenick (1931),
basato su una popolare commedia di Carl Zuckmayer, il cui protagonista è un
delinquente di mezza tacca che si fa passare per un ufficiale prussiano.
Dopo l’avvento del nazismo, Oswald lavorò in Austria, Francia, Olanda
e Inghilterra, prima di trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti nel 1938.
Nella manciata di film che girò a Hollywood figurano un remake di Der
Hauptmann von Köpenick (Il capitano di Koepenick, 1941) con
Albert Bassermann, che subì notevoli ritardi nella distribuzione (e uscirà infine
con i titoli I Was aCriminal e Passport to Heaven),
e la commedia The Lovable Cheat (L’amabile ingenua; 1949)
d’après Balzac, con Charlie Ruggles, Curt Bois e Buster Keaton.
Il figlio di O., Gerd Oswald (1918-1989) ebbe una fortunata carriera di regista
e produttore a Hollywood. (Estratto da Concise CineGraph) |
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WEGE ZU KRAFT UND SCHÖNHEIT (Forza e bellezza
/ The Way to Strength and Beauty) (Universum-Film AG (Ufa) – Kulturabteilung,
Berlin, DE 1924-25)
Regia/dir., scen: Wilhelm Prager; f./ph: Friedrich
Weinmann, Eugen Hrich, Friedrich Paulmann, Max Brinck, Kurt Neubett,
Jakob Schatzow, Erich Stocker; scg./des: Hans Sohnle, Otto Erdmann; cast:
La Jana, Maria Caramonte [= Eva Liebenberg], Hertha von Walther, Kitty
Cauer, Hubert Houben, Rudolf Kobs, Luber, Artur Holz, Herrmann Westerhaus,
Henry Carr, Helen Wills; Charles William Paddock, Loren Murchison, Arthur
Porrit (velocisti/sprinters); Leni Riefenstahl, membri della/members
of the Bode-Schule, Laban-Schule, Schule Hellerau für Rhythmus,
Musik und Körperbildung, Gymnastik-Schule Bess Mensendiek, Gymnastik-Schule
Loheland (culturisti/body culture performers); Lydia Impekoven,
Tamara Karsavina, Peter Wladimiroff, Jenny Hasselqvist, Bac Ishii, Konami
Ishii, Mary Wigman, Carolina de la Riva (danzatrici/dancers); data
v.c./censor date: 16.2.1925; première: 16.3.1925,
Ufa-Palast am Zoo, Berlin; nuova versione/new version (1926):data
v.c./censor date: 4.6.1926, première: 11.6.1926,
Ufa-Palast am Zoo, Berlin; 35mm, 2536 m., 100’ (22 fps);fonte
copia / print source: Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung, Wiesbaden.
Didascalie in inglese / English intertitles.
Intorno al 1924, la drammatica crisi economica della Germania ridusse temporaneamente
la produzione di lungometraggi, incrementando quella di documentari e film educativi
(Lehrfilme), che offrivano il vantaggio di una notevole riduzione dei costi.
Questi stilizzati Kulturfilme si rivelarono estremamente redditizi per il conglomerato
Ufa. Che, facendo di necessità virtù, in un suo opuscolo pubblicitario
dell’epoca annunciava pomposamente: “Il mondo è bello: e il
suo specchio è il Kulturfilm.” Il Kulturabteilung Ufa era stato
fondato nel luglio del 1918, e verso la metà degli anni ’20 aveva
iniziato la produzione di documentari a lungometraggio su argomenti vari, quali
il vino attraverso i secoli, et cetera. Il suo più grande successo commerciale
fu Wege zu Kraft undSchönheit, che venne nuovamente distribuito
nel 1926 con un 60% circa di materiale nuovo. Quando il film fu distribuito all’estero
vennero fatte ulteriori aggiunte, per assecondare i requisiti e le preferenze
delle singole nazioni. Recensendo la versione americana (The Way to Strength
andBeauty) nel 1927, il New York Times informava i propri
lettori che il film aveva attivamente contribuito a diffondere “la mania
per il nudo e i bagni di sole nei paesi d’oltreoceano”. Scrive Siegfried
Kracauer nel 1947 in Dal Gabinetto del dottor Caligari a Hitler:
“Il primo Kulturfilm che colpì il pubblico straniero fu Wege
zu Kraft und Schönheit (Forza ebellezza) dell’UFA
[diretto da Wilhelm Prager], un lungometraggio documentario distribuito nel 1925
e ripresentato un anno dopo in edizione un po’ modificata. Realizzato con
l’appoggio finanziario del Governo tedesco, questo film venne proiettato
nelle scuole per il valore educativo che gli si attribuiva. In un manifesto pubblicitario
dell’UFA dedicato ai suoi pregi, un panegirista di professione afferma
che Wege zu Kraft und Schönheit propugna il concetto della «rigenerazione
della razza umana». In realtà il film propugna soltanto la ginnastica
artistica e lo sport, ma in compenso lo fa senza risparmio di colpi: non contenta
di ritrarre scene reali di atletica, di ginnastica igienica e ritmica, di danza
e così via, l’UFA risuscita le terme romane e un antico ginnasio
greco pieno di adolescenti che si atteggiano a contemporanei di Pericle. La mascherata
era facile in quanto molti atleti si esibivano completamente nudi. Naturalmente
questo spettacolo offese i prudes, ma l’UFA sostenne che la perfetta
bellezza fisica doveva suscitare piaceri di ordine puramente estetico e il suo
idealismo fu compensato dagli ottimi incassi al botteghino. Da un punto di vista
estetico la ricostruzione dell’antichità è di cattivo gusto,
le scene sportive eccellenti e le bellezze fisiche talmente ammassate le une
alle altre che non fanno nessun effetto, né sensuale, né estetico.”
David Robinson
Wilhelm Prager (Augsburg, 1876-1955, Prien am Chiemsee) iniziò la
sua carriera come attore di teatro. Nel 1919, dopo aver prestato servizio nella
prima guerra mondiale, debuttò nel cinema come attore e assistente alla
regia. La sua prima regia, In der Sommerfrisch’n (1920), un film
turistico, segnò l’inizio di una lunga carriera durata fino al 1945:
realizzò 150 film per lo Ufa-Kulturabteilung, specializzandosi in adattamenti
da fiabe e redditizi film sul folklore, la campagna e lo sport. I suoi tre lungometraggi
di ispirazione fiabesca del 1921, Der kleine Muck, Tischleindeck
dich..., e Der fremde Prinz, tratti da novelle di Wilhelm Hauff
e dei fratelli Grimm, furono i primi film tedeschi del genere, e la Ufa seppe
abilmente lanciarli sul mercato internazionale traendone buoni profitti. Ma dopo
lo straordinario successo di Wege zu Kraft und Schönheit, il lungometraggio
realizzato da Prager per il Kulturfilm e prodotto da Nicholas Kaufmann, si dedicò prevalentemente
alla produzione di documentari.
Prager predilesse i film sull’allevamento dei cavalli; per Paradies
der Pferde (1936), un suo documentario sulla scuderia di Trakehnen nella
Prussia Orientale, ricevette una medaglia d’oro alla Exposition Internationale “Arts
et Techniques” di Parigi del 1937. Nel 1939 la Gestapo dichiarò Prager
un “mezzo-ebreo”, ma egli rimase ugualmente membro del Reichsfilmkammer,
realizzando Kulturfilme quali Heuzug im Allgäu. Dopo la seconda
guerra mondiale, continuò per un breve periodo a produrre film con una
propria casa di produzione, la Willi-Prager-Films. Alle prime difficoltà finanziare,
abbandonò l’attività cinematografica. (Estratto da CineGraph) |
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DER FARMER AUS TEXAS (The Cowboy Count) (Universum-Film
AG (Ufa), Berlin, DE 1925)
Regia/dir., prod: Joe May; scen: Joe May, Rolf E. Vanloo, dalla
pièce/from the play Kolportage di/by Georg Kaiser; f./ph:
Carl Drews, Antonio Frenguelli; scg./des: Paul Leni; cast: Mady
Christians (Mabel Bratt), Edward Burns (Erik), Willy Fritsch (Akke),
Lilian Hall-Davis (Alice), Christian Bummerstedt (Conte/Count von
Stjernenhoe), Clara [Clare] Greet (Mrs. Appelboom), Hans Junkermann (Barone/Baron
Barrenkrona), Pauline Garon (Miss Abby Grant), Frida Richard (zia/aunt Jutta),
Ellen Plessow, Emmy Wyda; riprese/filmed: 1925; data v.c./censor
date: 25.7.1925; première: 22.10.1925, Tauentzien-Palast,
U.T. Turmstraße, Ufa-Palast Königstadt, U.T. Alexanderplatz,
Berlin; lg. or./orig. l.: 2540 m.; 35mm, 2447 m., 106’ (20
fps); fonte copia/print source: Bundesarchiv-Filmarchiv, Berlin.
Didascalie in inglese / English intertitles.
Trovare un film tedesco della metà degli anni ’20 intitolato Der
Farmer aus Texas non rappresenta certo una sorpresa. L’America, per
un verso o per l’altro, occupava i pensieri di molti. Il potente conglomerato
della Ufa rischiò di inflazionare i costi di produzione elevando di proposito
i propri livelli di spettacolarità per attirare il mercato americano.
Contemporaneamente, le coproduzioni europee tendevano a rafforzare il mercato
interno europeo e a porre un freno all’importazione di film americani.
E mentre davanti ai cinema, nei teatri e negli alberghi il jazz, la danza e la
musica americana eccitavano le folle; per gli scrittori di sinistra come Brecht,
l’America rappresentava a un tempo un pericoloso monito e un’attrazione
fatale. Schizofrenia pura.
Questa produzione Ufa di Joe May, adattamento cinematografico di una delle più popolari
pièces teatrali berlinesi del 1924, Kolportage (“romanzo
d’appendice”) di Georg Kaiser, rispecchia perfettamente la grande
confusione del periodo. Il titolo, il soggetto, gli interni abilmente ricostruiti
in studio, gli esterni pittoreschi, il cast di attori americani ed inglesi, tutto
lasciava presagire l’auspicato grande successo internazionale. (Che però non
arrivò). Nel film non c’è peraltro il minimo atteggiamento
reverenziale nei confronti dell’America: il Nuovo Mondo viene canzonato
al pari del Vecchio Continente. Il Georg Kaiser di Kolportage aveva
mutato registro rispetto ai drammi espressionisti scritti durante la Grande Guerra;
e in Kolportage aveva cinicamente assemblato clichés teatrali
e parodia dei generi più popolari. Gli elementi chiave della trama sono
quanto di più stantio si possa immaginare: oltre all’abusato contrasto
tra Vecchio e Nuovo Mondo, tra vecchie fortune e nouveaux riches, non mancano
una famiglia aristocratica divisa in opposte fazioni, una spruzzata di violento
conflitto dinastico, e una variazione sul vetusto tema delle culle scambiate
(il pargolo del conte Stjernenhoe viene scambiato con il figlio di una povera
vedova, Frau Appelboom).
Ma quello che era piaciuto alle platee teatrali non riscosse altrettanto successo
nei cinema tedeschi: anzi, i pesanti costi di produzione di Der Farmer aus
Texas nel 1926 spinsero la Ufa a un passo dalla bancarotta. Forse il pubblico
cinematografico non seppe cogliere il tono ironico di questo ‘romanzo d’appendice’.
Forse non fu in grado di apprezzare gli attori d’importazione che si muovevano
nei suggestivi set del castello ricreati in studio da Paul Leni o, in esterni,
sulle bellissime coste svedesi. Attori quali l’aitante americano Edward
Burns (qui nel ruolo del vero figlio del conte, che dà anche il titolo
al film); o le inglesi Lilian Hall-Davis (Alice, suo giovanile sogno d’amore)
e Clare Greet (la povera vedova Appelboom). Il pubblico, naturalmente, apprezzò Willy
Fritsch, l’amabile ed energico “falso” virgulto Akke: il cui
ruolo crebbe di spessore per favorire lo status di star dell’attore. E
sicuramente a nessuno riuscì sgradita Mady Christians, nel ruolo di Mabel,
la figlia del ricco agricoltore americano, il cui matrimonio con Christian Bummersted
(il conte di Stjernenhoe) dà inizio alla vicenda.
Le difficoltà personali di Joe May probabilmente influirono sulla produzione:
nello stesso mese in cui ebbero inizio le riprese del film, agosto 1925, Eva
May, la figlia attrice del regista, si tolse la vita con un colpo di pistola.
Ma questo, oggi, non può certo incupire la nostra visione. Ambizioso,
elegante e molto legato al suo tempo, Der Farmer aus Texas è esattamente
il tipo di affascinante film commerciale ingiustamente oscurato dalle “ombre
premonitrici” di Kracauer e della Eisner. – Geoff Brown
Joe May (Julius Otto Mandl; Vienna, 1880–1954, Hollywood).
Figlio di un ricco industriale, May scialacquò le fortune familiari vivendo
nel bel mondo di Berlino. Nel 1902 sposò la cantante Hermine Pfleger;
e quando la moglie adottò il nom d’art ‘Mia May’, Mandl
divenne Joe May. Realizzò il suo primo lungometraggio per la Continental-Kunstfilm
dirigendo Mia, al suo primo ruolo cinematografico, nel dramma sentimentale In
der Tiefe des Schachtes (1912). Dopo aver inaugurato, nel 1913, con la serie
poliziesca del detective Stuart Webbs, la Continental, nel 1915 fondò la
May-Film lanciando una serie concorrenziale con il detective “Joe Deebs”.
Nello stesso tempo, dette la possibilità di emergere a intraprendenti
giovani di talento quali Fritz Lang e E.A. Dupont, e incoraggiò la carriera
di tragédienne melodrammatica di Mia azzardando imprese rischiose quali Die
Herrin der Welt (1919), un’avventura esotica in otto parti.
Affiliato alla Ufa durante tutti questi anni, nel 1921 May cambiò partner
legandosi alla EFA, una casa di produzione con capitale americano. Con le due
parti di Das Indische Grabmal (Il sepolcro indiano, 1921) e
il melodramma ambientato nell’alta società Tragödie der
Liebe (1923), May divenne il nome di maggior prestigio dello studio dopo
Lubitsch. Seguì un periodo abbastanza difficile: la rampante inflazione
tedesca costrinse gli studios a una drastica riorganizzazione; Mia si ritirò in
seguito al suicidio della figlia attrice della coppia, Eva May; e Der Farmer
aus Texas, un tentativo di successo internazionale, si rivelò un
disastro finanziario. La sua buona fortuna risorse sotto gli auspici dell’unità produttiva
Ufa di Erich Pommer, per il quale realizzò i suoi ultimi due drammi muti Heimkehr (Il
canto del prigioniero, 1928) e Asphalt (Asfalto, 1929).
Il felice debutto sonoro di May, la commedia IhreMajestät die
Liebe, provò la sua attitudine anche nell’ambito della commedia.
Dopo la première del musical di Jan Kiepura Ein Lied für Dich (1933),
May emigrò – via Parigi e Londra – a Hollywood, dove Pommer,
allora alla Fox, gli affidò la regia di Music in the Air (Musica
nell’aria, 1934). Prima produzione hollywoodiana il cui cast artistico
e tecnico era interamente composto da émigrés dalla Germania nazista,
il film fu un sonoro flop, come anche il successivo elegante dramma giudiziario Confession (1937),
realizzato per la Warner Brothers.
In seguito, May diresse alcune produzioni di serie B per la Universal, che gli
procurarono la nomea di regista poco affidabile – gli fu tolta la regia
del film antinazista The Strange Death of Adolf Hitler (1943). Il suo
ultimo film fu la commedia di guerra Johnny Doesn’t Live Here Any More (Sette
settimane di guai, 1944). Cinque anni dopo, grazie al finanziamento di alcuni
amici, Joe e Mia May aprirono un ristorante viennese a Los Angeles; chiuse i
battenti dopo poche settimane.
(Estratto da Concise CineGraph)
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DER HERR DES TODES (Maxim Film, Ebner & Co.,
Berlin, DE 1926)
Regia/dir: Hans Steinhoff; scen: Hans Szekely, dal
romanzo di/based on the novel by Karl Rosner; f./ph: Hans
Theyer, Willibald Gaebel; scg./des: Robert Neppach; mus.
(1926 Berlin premiere): Pasquale Perris; cast: Alfred Solm
(Peter von Hersdorff), Hertha von Walther (Maja), Simone Vaudry (Heid
von Düren), Eduard von Winterstein (colonello/Colonel von
Hersdorff), Heinrich Peer (consigliere segreto/Privy Councillor von
Düren), Erna Hauck (Daisy Brown), Jenny Marba (Sig.ra /Mrs. von
Hersdorff), Hedwig Pauly-Winterstein (Consigliere segreto della moglie
di von Düren/Privy Councillor von Düren’s wife),
Ferdinand von Alten (Barone/Baron von Bassenheim),Szöke
Szakall (impresario Bordoni), Georg John, Hugo Döblin,
Maria Forescu, Teddy Bill, Paul Rehkopf, Mammey-Bassa, John Essaw; data
v.c./censor date: 22.11.1926; première:
26.11.1926, Tauentzien-Palast, Berlin; lg. or./orig. l.: 2318
m.; 35mm, 2388 m., 95’ (22 fps); fonte copia/print source: Bundesarchiv-Filmarchiv,
Berlin.
Didascalie in tedesco / German intertitles.
Der Herr des Todes (tit. ingl. The Master of Death) faceva
parte di una serie di film realizzati da una delle sussidiarie della Ufa nel
tentativo di adempiere agli obblighi contrattuali del malaccorto “Parufamet-Agreement” da
lei stipulato con la Paramount e la Metro-Goldwyn-Mayer nel dicembre del 1925
(che costringeva i tedeschi a produrre un minimo di 40 film per poterne importare
20 da ciascuna delle due majors hollywoodiane) e di un altro accordo separato
sottoscritto con Carl Laemmle (nel quale la Ufa si impegnava a programmare 50
film Universal nei propri cinema in cambio di un prestito di 275.000 $). Steinhoff
(che pare fosse stato coinvolto nel progetto all’ultimo minuto) non era
un nuovo arrivato alla Maxim Film, Ebner & Co., avendo già scritto
due sceneggiature per conto della stessa compagnia, Die Fledermaus (di
Max Mack, 1922) and Der Mann im Sattel (di Manfred Noa, 1925).
Basato su un romanzo di Karl Rosner e – secondo all’opinione di un
recensore – estremamente simile a una produzione Deutsche Bioscop di Max
Obald del 1913-14 dallo stesso titolo, il film narra la vicenda di Peter Hersdorff,
un aristocratico luogotenente di cavalleria che è costretto a dimettersi
e a rinunciare alla carriera militare per essersi difeso dalle deliberate provocazioni
di un ufficiale suo superiore che gli contende le attenzioni amorose della figlia
di un rispettabile consigliere privato. Preoccupata per la propria onorabilità,
la famiglia di Peter lo esilia a New York, dove il giovane affronta una vita
assai grama fino a che un ex artista di circo non lo aiuta a diventare un abile
trapezista e acrobata di fama mondiale. Per poter riabbracciare la fanciulla
che ama, Peter dovrà prima sopravvivere a un atto di sabotaggio di un
rivale geloso.
Benché la vicenda sia ambientata nei primi anni del 1920, i personaggi,
l’atmosfera e le usanze del film riecheggiano il periodo che aveva preceduto
la prima guerra mondiale, e che serbava ancora un grande fascino presso alcuni
settori della società tedesca negli anni della repubblica di Weimar. La
presenza di attori sconosciuti nei ruoli principali, l’apparizione nel
Central Park di New York di pini caratteristici delle foreste dei dintorni di
Berlino, e la première del film a Monaco (cinque mesi dopo la sua uscita
berlinese) di rincalzo a The Midnight Sun di Dimitri Buchowetzki (1926;
titolo della distribuzione tedesca, Die Tänzerindes Zaren)
in un doppio programma presso lo Ufa-Filmpalast cittadino, sono chiari indizi
dello status di low-budget del film e lo relegano nella categoria “produzioni
affrettate”. Il film contiene anche un interessante esempio di “product-placement”:
il piroscafo di linea Columbus (regolarmente usato dai manager della Ufa per
i loro viaggi di lavoro negli States) figurava abbastanza dettagliatamente nelle
scene del film da consentire al suo proprietario, il Norddeutsche Lloyd, di offrire
passaggi gratuiti alla piccola troupe richiesta per le riprese a bordo della
nave e a New York.
I critici berlinesi furono fortemente divisi nei loro giudizi. Alcuni sottolinearono
con sarcasmo le “caratteristiche antiquate” del film in un’epoca
in cui i tedeschi cercavano di affrancarsi dal loro passato imperiale, mentre
altri – e in particolare la stampa di settore che auspicava un suo successo
al botteghino – lo ritennero un ottimo esempio di cinema commerciale senza
pretese letterarie, che mirava soprattutto a emozionare e divertire il pubblico.
Per Steinhoff fu solo un impegno di routine da portare a termine con il solido
professionismo che aveva sempre caratterizzato la sua opera.
Horst Claus
Hans Steinhoff (Johannes Reiter; Marienberg, Sassonia, 1882-1945,
Glienig, nei pressi di Berlino). Grazie al progetto Steinhoff del Bundesarchiv-Filmarchiv
di Berlino, gli habitués delle Giornate hanno già qualche familiarità con
i film muti di questo regista dimenticato. Le carriere di buona parte degli artisti
presenti in questa serie intitolata “L’altra Weimar” furono
stroncate dalla persecuzione nazista, mentre quella di Steinhoff proseguì anche
durante la repubblica di Weimar con una pregevole produzione che è stata
ingiustamente offuscata dalla successiva pessima notorietà del regista
come autore di alcuni dei più infami film di propaganda del cinema nazista.
Steinhoff crebbe a Lipsia. All’età di 15 anni entrò a far
parte di una compagnia teatrale locale. A questa esperienza ne seguirono molte
altre: recitò al fianco dell’autore Frank Wedekind nella prima produzione
di Lulu (Steinhoff vi interpretava Alwa, Wedekind il Dr. Schön);
fu cantante e regista d’operetta. Dopo la prima guerra mondiale, con il
declino del teatro di varietà tradizionale, Steinhoff fondò, nel
1921, una propria casa di produzione cinematografica. Per la Gloria di Berlino
realizzò lo storico/epico Der Falsche Dimitry (The False
Dimitri, 1922), e si costruì una solida reputazione di regista efficiente
e versatile nelle produzioni destinate al grosso pubblico. La sua abilità nel
lavorare con budget di modesta entità lo rese particolarmente popolare
presso le case di produzione più piccole.
Nel 1933, mentre era sotto contratto con una unità minore della Ufa specializzata
in produzioni d serie B, Steinhoff realizzò HitlerjungeQuex,
film che gli valse lo statuto di rappresentante ufficiale della propaganda nazista.
Benché Steinhoff fosse un fervente ammiratore di Hitler, non fu mai iscritto
al partito; e alcune persone che lo conobbero lo hanno descritto come “un
individuo totalmente apolitico”, un opportunista più che un vero
attivista politico. La sua reputazione come uno dei maggiori (e più apprezzati)
registi del Terzo Reich si basa soprattutto su “biopics” [cine-biografie
romanzate] quali Ohm Krüger (Ohm Krüger, l’eroe
dei boeri, 1941) e Rembrandt (1942). Ma Steinhoff fu anche il responsabile
di Die GeierWally (Wally dell’avvoltoio, 1940),
uno degli esempi più autorevoli di Heimatfilm, e dell’ambiguo Tanz
auf dem Vulkan (1938), nel quale Gustaf Gründgens sembra incitare la
resistenza alla dittatura.
Steinhoff morì negli ultimi giorni di guerra, quando l’aeroplano
che lo stava riportando a Praga – dove stava girando un film concepito
su misura per il divo Hans Albers – venne abbattuto dalla contraerea russa
nella zona a sud-est di Berlino. (Estratto da ConciseCineGraph) |
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DER HIMMEL AUF ERDEN (Reinhold Schünzel-Film GmbH,
Berlin, DE 1927)
Regia/dir: Alfred Schirokauer; prod., supv: Reinhold Schünzel; scen: Reinhold
Schünzel, Alfred Schirokauer, dalla pièce/from the play Der
Doppelmenschdi/by Wilhelm Jacobi & Arthur Lippschütz; f./ph: Edgar
S. Ziesemer; scg./des: O.F. Werndorff; cast: Reinhold
Schünzel (Traugott Bellmann), Charlotte Ander (Juliette), Adele Sandrock
(presidentessa della lega per la moralità/morality league president),
Emmy Wyda, Erich Kaiser-Titz (Dr. Dresdner), Otto Wallburg (Louis Martiny),
Paul Morgan (Herr Kippel), Szöke Szakall (manager), Ellen Plessow (Frau
Kippel), Johanna Ewald, Frigga Braut, Ida Perry (Frau Martiny), Maria Kamradek; riprese/filmed: 1926-27; data
v.c./censor date: 27.1.1927; première: 25.7.1927, Gloria-Palast,
Berlin; lg. or./orig. l.: 2410 m.; 35mm, 2450 m., 97’ (22
fps); fonte copia/print source: Bundesarchiv-Filmarchiv, Berlin.
Didascalie in tedesco / German intertitles.
Se provate a scorrere gli indici degli autorevoli “From Caligari to
Hitler” [Dal Gabinetto del dottor Caligari a Hitler, tr. it. 1954] di Siegfried
Kracauer e “L’écran démoniaque” [Lo schermo demoniaco,
1952] di Lotte Eisner, non vi troverete mai menzionato Reinhold Schünzel,
e neppure la commedia sul travestitismo Viktor undViktoria,
il suo film più famoso. E nel caso di Kracauer in particolare, l’omissione
di un attore-regista così dilettevole e significativo appare davvero una
singolare miopia. Kracauer, sociologo e storico, da acuto analista della tipologia
umana e delle tecnologie di massa, avrebbe dovuto scorgere nelle creazioni cinematografiche
di Schünzel un distillato dell’inquieto edonismo della Berlino di
Weimar osservato in uno specchio folle.
Come attore, Schünzel si mise in luce dopo la prima guerra mondiale, incarnando
figure ambigue e demoniache in Anders als die Andern di Richard Oswald
e in altri melodrammi di attualità – e interpretate con una tale
forza che un critico, nel 1926, lo definì “il peccato personificato”.
Nel corso degli anni ’20, cambiò completamente registro, passando
dal dramma alla commedia, anche se negli esilaranti Der Himmelauf
Erden, Halloh – Caesar! e Hercules Maier gli inganni,
i travestimenti (morali e sessuali) e la pericolosa eleganza della sua gestualità non
diminuirono affatto di segno. I suoi personaggi sono parenti stretti di quelli
che abitano i dipinti di Otto Dix, George Grosz, e Max Beckmann: prussiani dalle
facce squadrate, ossessionati dal piacere e dal capitalismo, che bevono le loro
notti fino all’ultima feccia.
Schünzel non fu il regista ufficiale di Der Himmel auf Erden; ma
essendone stato supervisore artistico, produttore, co-sceneggiatore, e protagonista,
non restano molti dubbi su chi abbia retto le fila – e, soprattutto, su
chi si concentrerà la nostra attenzione. Nonostante la presenza della
deliziosa di Charlotte Ander, di Szöke Szakall, delle ballerine, di una
jazz band nera, di una scimmia ammaestrata e degli sfarzosi set del nightclub
disegnati da Oscar Werndorff, i nostri occhi sono sempre alla ricerca di Schünzel.
Il materiale originale, la farsa teatrale DerDoppelmensch,
gli fornì un prototipo ideale del burocrate di Weimar: Bellmann, il probo,
intollerante e proibizionista consigliere municipale la cui irreprensibile moralità viene
messa a repentaglio quando il suo defunto fratello gli lascia in eredità 500.000
marchi e un night-club di pessima fama “Der Himmel auf Erden” (“Il
Cielo in terra”).
Per ottemperare alle clausole testamentarie del fratello – che ne sarebbe
delle farse senza i testamenti? – Bellmann deve essere fisicamente presente
nel club ogni notte. Da qui il parossismo del suo imbarazzo e disdegno. Da qui
la successiva e temeraria apparizione da travestito nel suo club, dove danzerà stracarico
di gioielli, a mo’ di reginetta del ballo. (Schünzel, di sessualità incerta
lui stesso, probabilmente se ne compiacque parecchio). Dal dito sollevato alle
sopracciglia inarcate, il repertorio corporeo della sua comicità appare
inesauribile. E il regista Alfred Schirokauer, seguendo lo stile asciutto di
regia dello stesso Schünzel, conosce l’importanza del ‘controlla
e aspetta’; visivamente, niente appare forzato o affrettato. È Weimar
catturata in una bottiglia mignon – che, credetemi, si lascia bere tutta
d’un fiato. – Geoff Brown
Reinhold Schünzel (Hamburg, 1888–1954, Munich)
dapprima raggiunse la notorietà come attore di cinema, anche se oggi
lo si ricorda soprattutto come regista di alcuni dei più grossi successi
degli anni ’20 e ’30, secondi soltanto ai film di Lubitsch per
intelligenza e ricercatezza. Debuttò nel cinema nel 1916, entrando
a far parte, con Conrad Veidt e la ballerina esotica Anita Berber, del team
di attori del regista Richard Oswald: nel melodramma di emancipazione omosessuale Anders
als die Andern (1919) interpretò un viscido ricattatore. Mentre
per Lubitsch, fu un losco e ombroso aristocratico in Madame Dubarry (id.,1921).
Regista dal 1918, si dedicò prevalentemente alla commedia, ma con Katharina
die Grosse (1920), seppe dimostrare un talento sicuro anche nel genere storico-spettacolare.
Dopo gli inizi da indipendente, nel 1926 venne scritturato dalla Ufa, dirigendo
e interpretando popolari commedie slapstick, tra cui Halloh – Caesar! (1926), Der
Himmel auf Erden (1927), e Hercules Maier (1927). Si adattò senza
problemi al sonoro, sfruttando abilmente musica, dialogo e rumori per trarne
la massima efficacia comica. Mantenne inalterato il suo senso dell’ironia
e la propensione ai soggetti erotici risqué, come nel suo capolavoro Viktor
und Viktoria (1933), una commedia musicale su una giovane donna che finge
di essere un attore specializzato in ruoli femminili. Contemporaneamente, Schünzel
continuò a recitare per altri registi: in Die 3-Groschen-Oper (L’opera
da tre soldi, 1931) di Pabst interpretava il corrotto capo della polizia
Tiger Brown.
Dopo l’avvento del nazismo, Schünzel, classificato “mezzo-ebreo”,
ottenne una dispensa speciale dal ministero della propaganda che gi permise di
continuare a lavorare per la Ufa. Apparentemente imperturbato dal cambio di regime,
continuò a dare nuove prove di garbata ironia, in particolare con Amphitryon (1935),
una commedia sulla vita domestica degli dei greci, che venne letta come una presa
in giro del nuovo stato tedesco. Land der Liebe (1937), il suo ultimo
film tedesco, era un film operetta dai toni satirici, che uscì in una
versione drasticamente tagliata.
Successivamente Schünzel partì per Hollywood, dove suscitò la
diffidenza della comunità dei tedeschi émigrés che erano
stati costretti a partire prima di lui. Sotto contratto alla M-G-M, i suoi tentativi
di replicare i successi europei fallirono, e dopo New Wine (1941), una
biografia – non della migliore qualità – di Franz Schubert,
ritornò a recitare. Spesso interpretò il ruolo del nazista, come
in Hangmen Also Die! (Anche i boia muoiono, 1943) di Lang.
Fu anche uno dei sinistri ospiti chez-Claude Rains in Notorious di Hitchcock
(Notorious-L’amante perduta, 1946). Schünzel tornò in
Germania nel 1951, dove recitò in teatro e, occasionalmente, in qualche
film, fino alla morte. (Estratto da ConciseCineGraph)
Alfred Schirokauer (Breslau, 1880–1934, Vienna) era
un avvocato che negli anni ’20 e ’30 pubblicò una serie
di fortunati romanzi basati su personaggi storici quali Ferdinand Lassalle,
Lord Byron, Mirabeau, Napoleone e Lucrezia Borgia, che furono spesso adattati
per lo schermo. Nel 1913 iniziò a scrivere sceneggiature per Joe May.
Lavorò poi negli studios di Monaco, scrivendo film per i registi Franz
Osten, per il fratello di questi, Ottmar Ostermayr, e per Franz Seitz (Senior).
A partire dai primi anni ’20, cominciò ad occuparsi saltuariamente
di regia. Trasferitosi a Berlino, collaborò a una lunga serie di film
del poliedrico attore e regista Reinhold Schünzel e scrisse sceneggiature
per i registi Georg Jacoby, Max Mack, Erich Waschneck e altri. All’avvento
del nazismo, emigrò dapprima in Olanda e poi a Vienna. (Estratto da ConciseCineGraph)
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DIE HOSE(A Royal Scandal) (Phoebus-Film
AG, Berlin, DE 1927)
Regia/dir: Hans Behrendt; scen: Franz Schulz, dalla
pièce di/from the play by Carl Sternheim; f./ph:
Carl Drews; scg./des: Heinrich Richter, Franz Schroedter; cast: Werner
Krauss (Theobald Maske), Jenny Jugo (Luise), Rudolf Forster (Scarron),
Veit Harlan (Mandelstam), Christian Bummerstedt (principe/Prince),
Olga Limburg (dirimpettaia/the woman across the street), Martin
Held; riprese/filmed: 1927; data v.c./censor date: 20.7.1927; première:
20.8.1927, Capitol, Berlin; lg. or./orig. l.: 2425 m.; 35mm,
2170 m., 86’ (22 fps); fonte copia/print source: Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung,
Wiesbaden.
Didascalie in tedesco / German intertitles.
“Un film allo champagne ‘extra-dry’,” proclamò il
critico di Film-Kurier Willy Haas. E quello champagne piacque molto
anche alle platee tedesche: la commedia di Hans Behrendt basata sulla farsa di
Carl Sternheim del 1911 riscosse infatti un notevole successo di pubblico e di
critica. Il titolo fa riferimento al capo di biancheria intima indossato e perduto
da una pudica mogliettina interpretata da Jenny Jugo: un’ovvia attrattiva
per gran parte del pubblico. Anche se a suggellare il divertimento generale fu
piuttosto Werner Krauss, nel ruolo del marito piccolo borghese della Jugo – punto
focale della satira sociale e politica contenuta nella pièce di Sternheim.
Theobald Maske è il tipico burocrate di mezza tacca di un piccolo principato
tedesco. Sequenza dopo sequenza, si definisce la vuota routine della sua giornata.
Le abluzioni del mattino. L’arrivo in ufficio. La totale inattività,
tranne il controllo dell’orologio e la compiaciuta attenzione per i propri
baffi. Suona il mezzogiorno. Cerimonia di scartamento e consumo del pranzo preconfezionato.
E di nuovo la totale inattività...
Il piccolo burocrate delineato con grande meticolosità da Krauss, (diversissimo
qui dalla sua incarnazione del Dr. Caligari nel film di Robert Wiene) era il
tipo di personaggio che scatenava l’ilarità del pubblico – che
rideva di lui o con lui – magari con qualche sospiro di nostalgia per il
vecchio ordine prebellico. Herbert Ihering nel Berliner Börsen-Courier paragonò il
Theobald Maske di Krauss a una caricatura della classe dirigente di George Grosz,
sostenendo che Krauss era un attore cui si aprivano infinite possibilità nell’ambito
del cinema tedesco. Il critico non poteva certo prevedere la partecipazione di
Krauss in Jud Süss [Süss l’ebreo 1940] (il
cui regista Veit Harlan appare qui nel ruolo del barbiere ebreo Mandelstam) e
in altri film di propaganda nazista che seguiranno.
Il sapiente controllo della gestualità e del ritmo da parte di Behrendt
sono alla base del successo di DieHose. Ma lo champagne non
sarebbe stato altrettanto frizzante senza il lavoro di Franz Schulz, il futuro
scrittore dei film operetta sonori della Ufa. Schulz sfrondò svariati
motivi e caratterizzazioni della farsa di Sternheim per trarne uno script gioiosamente
cinematografico. Siegfried Kracauer, nel suo From Caligari to Hitler (1947)
[ed. it. Dal Gabinetto del dottor Caligari a Hitler, 1954] lo definì “Uno
dei migliori film dell’epoca” – e Kracauer non era certo un
uomo dai gusti facili. – Geoff Brown
Hans Behrendt (Berlino, 1889-1942?, Auschwitz?) cominciò la
sua carriera come attore di teatro, e debuttò nel cinema interpretando
il ruolo di un becchino in MariaMagdalene (1919), diretto dal
suo amico Reinhold Schünzel. In collaborazione con Bobby E. Lüthge,
scrisse sceneggiature per Schünzel e Urban Gad; e, per Arsen von Cserépy,
le quattro parti di Fridericus Rex (1920-1923) – il primo di una
lunga serie di film tedeschi con Otto Gebühr nel ruolo del re prussiano,
molto popolari presso i partiti di destra e nei circoli antirepubblicani. Scrisse
divertenti commedie di routine anche per Richard Eichberg, Friedrich Zelnik,
e altri, e adattò classici teatrali quali Ein Sommernachstraum (A
MidsummerNight’s Dream) da Shakespeare e Wallenstein da
Schiller. Diresse il suo primo film nel 1920 (DieBoxerhanne),
ma conquistò una posizione di grande prestigio solo dopo Prinz Louis
Ferdinand e Die Hose nel 1926-27. Si guadagnò la fama di “regista
di attori”, e di specialista in argomenti prussiani. I primi film sonori
di Behrendt furono deboli remake di grandi successi del muto, quali Kohlhiesels
Töchter (1930) con Henny Porten, la star dell’originale di Lubitsch
del 1920. Girò anche un remake della versione cinematografica del dramma
di Büchner Danton con Fritz Kortner.
Subito dopo il suo popolare heimatfilm, Grün ist die Heide, Behrendt
completò altri due lavori prima che i nazisti lo costringessero ad emigrare
in Spagna. Dove riuscì a girare un solo film – una versione della
popolare zarzuela Doña Francisquita (1934). Ma la cattiva sorte
infierì su di lui. Nel 1936, allo scoppio della guerra civile spagnola,
riparò a Vienna. Lì venne licenziato dal set di Fräulein
Lilli per i conflitti sorti con la star ungherese del film, Franciska Gaal.
Nel 1938, al momento dell’annessione nazista dell’Austria, cercò rifugio
a Bruxelles, dove, rifiutandosi di partire di nuovo, rimase fino al 1940, quando,
dopo un bombardamento tedesco della città, venne arrestato dalla polizia
belga. I tentativi di procurargli un visto per gli Usa arrivarono troppo tardi:
dopo due anni d’internamento in un campo francese, a Vichy, il nome di
Behrendt venne iscritto nella lista dei deportati del convoglio Parigi-Auschwitz
del 14 agosto 1942. Del suo arrivo ad Auschwitz non è rimasta documentazione.
(Estratto da CineGraph) |
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LOOPING THE LOOP(Die Todesschleife / Il cerchio
della morte) (Universum-Film AG (Ufa), Berlin, DE 1928)
Regia/dir: Arthur Robison; prod: Gregor Rabinowitsch; scen: Arthur
Robison, Robert Liebmann; f./ph: Carl Hoffmann; scg./des: Robert
Herlth, Walter Röhrig; cast: Werner Krauss (Botto), Jenny
Jugo (Blanche Valeite), Warwick Ward (André Melton), Gina Manès
(Hanna), Siegfried Arno (Sigi), Max Gülstorff, Lydia Potechina (parenti
di Blanche/Blanche’s relatives), Harry Grunwald, Julius
von Szöreghy [Julius Szöreghi] (agente/agent);riprese/filmed: 1927/1928; data
v.c./censor date: 24.05.1928; première: 15.9.1928,
U.T. Universum, Berlin; 35mm, 2880 m., 125’ (20 fps); fonte
copia/print source:Filmmuseum im Münchner Stadtmuseum, München.
Didascalie in tedesco / German intertitles.
Si potrebbe scrivere una buona tesi sul motivo ricorrente del clown nel
teatro e nel cinema degli anni ’20. Per quale ragione spuntarono così tanti
Pagliacci perennemente votati al tormento di amori non corrisposti nei drammi
di ambientazione circense di mezzo mondo, dall’America alla Scandinavia,
dalla Germania alla Russia; da Lon Chaney in He Who Gets Slapped (Quello
che prende gli schiaffi, 1925) al film di produzione Nordisk Klovnen?
Looping the Loop, (Il cerchio della morte, 1928) di Arthur
Robison, uno fra i tanti del folto contingente tedesco dell’epoca, non
dà una risposta adeguata all’enigma di fondo, pur dispiegando tutti
gli ingredienti che avevano contribuito al costante successo dei drammi sul circo.
Si tratta infatti di uno spettacolare film di pura evasione, denso di situazioni
pericolose ed emozionanti, che convergono tutte nel “cerchio della morte”,
una delle attrazione acrobatiche del circo – così chiamata per motivi
che appariranno subito evidenti. Ma ecco annunciarsi il tintinnio del vecchio
triangolo amoroso, qui composto da Jenny Jugo, la ragazza carina, da Werner Krauss
nel ruolo del clown frustrato, e dall’avvenente Warwick Ward in quello
dell’acrobata rivale. Da notare, inoltre, la fatale attrazione per il pathos
da parte degli attori, massimamente evidente nel Botto di Werner Krauss – un
personaggio così convinto lui stesso che ai clown sia preclusa ogni felicità in
amore da spacciarsi a Jenny Jugo per un ingegnere elettrico che lavora solo di
notte. E lei ci crede. Quando Robison e il suo team si accinsero a realizzare
questa produzione per la Ufa, l’introspezione psicologica e la recitazione
sfumata del loro capolavoro del 1923, Schatten – Eine nachtliche
Halluzination (Ombreammonitrici) non erano certamente
all’ordine del giorno; il loro scopo primario era quello di ottenere un
travolgente successo commerciale.
Che però tale non fu; il film non riuscì infatti a bissare il successo
internazionale di Varieté (id. 1925) di Dupont (alla
cui sceneggiatura peraltro chiaramente si ispirava). Paul Rotha, nel suo “The
Film Till Now” del 1930, attribuiva parte delle sue debolezze alla presunta
perdita del negativo originale in un incendio, che avrebbe costretto Robison
all’assemblaggio di una seconda versione di fortuna con l’utilizzo
di materiali di scarto. Debolezze a parte, rimangono pur sempre l’elegante
fotografia di Carl Hoffmann, uno script che non ha alcuna paura di sfidare l’assurdo
e una gamma recitativa che spazia dallo sguardo malinconico di Krauss alla stravaganza
di Warwick Ward – capace di strizzare l’occhio all’amata perfino
dopo essersi spezzato l’osso del collo. – Geoff Brown
Arthur Robison (Chicago, 1888-1935, Berlino), un professionista
di consumata abilità nell’esplorare i generi più vari, nacque
negli Stati Uniti, da una famiglia americana di origine tedesca, ma si trasferì in
Germania all’età di sette anni. Dapprima si laureò in medicina
ed esercitò la professione; ma nel 1914, dopo una esperienza teatrale
da attore in Germania e America, si accostò al cinema. Nel 1916 diresse
il suo primo film, Nächte des Grauens, con Werner Krauss e Emil
Jannings. Zwischen Abend und Morgen (1921) segnò l’inizio
della sua collaborazione con il direttore della fotografia Fritz Arno Wagner,
che molto contribuirà a creare la paurosa, claustrofobica atmosfera di Schatten (1923),
l’opera più famosa di Robison. Il film, con Fritz Kortner nel ruolo
di un marito geloso le cui violente fantasie trovano espressione in un teatrino
di ombre cinesi, rimane un classico dello “schermo diabolico” del
cinema di Weimar. Petro, der Korsar (1925) e Manon Lescaut (1926),
due sontuosi drammi in costume prodotti da Erich Pommer per la Ufa, confermarono
la reputazione di Robison. Dopo Looping the Loop, parzialmente girato
a Londra, realizzò The Informer per la British International
Pictures, un suggestivo adattamento dal romanzo di Liam O’Flaherty, impreziosito
dal sapiente gioco di luci ed ombre della fotografia di Werner Brandes e dalla
performance naturalistica di Lya de Putti nel ruolo della fidanzata di un informatore
dell’IRA. Nei primi anni ’30, a Hollywood, Robison diresse le versioni
in lingua straniera di svariate produzioni MGM, per poi tornare in Germania,
e alla Ufa, nel 1933. Il suo ultimo film fu un remake di DerStudent
von Prag (Lo studente di Praga, 1935), con Adolf Wohlbrück
[Anton Walbrook] nel ruolo del titolo. (Estratto da Concise CineGraph)
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Prog.
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DIE CARMEN VON ST. PAULI(Gestrandet) (Universum-Film
AG (Ufa), Berlin, DE 1928)
Regia/dir: Erich Waschneck; prod: Alfred Zeisler; scen: Bobby
E. Lüthge, Erich Waschneck; f./ph: Friedl Behn-Grund; scg./des: Alfred
Junge; cast: Jenny Jugo (Jenny Hummel), Willy Fritsch (Klaus Brandt),
Fritz Rasp (“il dottore”/“The Doctor”),
Wolfgang Zilzer (“Pince-nez”/“The Nipper”),
Tonio Gennaro (“Heinrich il cortese”/“Gentle
Heinrich”), Otto Kronburger (“Karl, il pilota”/“Karl
the Pilot”), Walter Seiler (“Alfred il lascivo”/“Randy Alfred”),
Charly Berger (“Il capitano”/“The Captain”),
Fritz Alberti (armatore/shipowner Rasmussen), Max Maximilian (Hein,
il suo vecchio servitore / Rasmussen’s old servant), Betty
Astor (Marie, la fidanzata di Klaus/Klaus’ fiancée),
Friedrich Benfer (Jimmy Swing, il ciclista/racing cyclist), Alfred
Zeisler; riprese/filmed: 1928; data v.c./censor date: 26.5.1928; première:
10.10.1928, Ufa-Palast am Zoo, Berlin; lg. or./orig. l.: 2333
m.; 35mm, 2376 m., 114’ (18 fps); fonte copia/print source: Cinémathèque
Royale de Belgique/Koninklijk Filmarchief, Bruxelles.
Didascalie in tedesco / German intertitles.
Die Carmen von St. Pauli, una storia ambientata sul fronte del porto di
Amburgo, fu uno dei molti film muti realizzati alla fine degli anni ’20
destinati ad essere spazzati via dalla rapida transizione verso il sonoro. Girato
negli studi berlinesi di Neubabelsberg e, in esterni, nel porto di Amburgo e
nel famigerato quartiere a luci rosse di St. Pauli, venne apprezzato dai critici
dell’epoca per il suo realismo. L’atmosfera della vita nel quartiere
del porto, con le navi alla fonda, i bar affacciati sulla banchina, e le strade
oscure piene di tentazioni, fu mirabilmente colta dal cameraman Friedel Behn-Grund
e dallo scenografo Alfred Junge.
E in effetti, l’atmosfera del film è più avvincente della
sua ingenua trama: il capitano Klaus Brandt (Willy Fritsch) si lascia irretire
dalla bella Jenny, la “Carmen” di una banda di malviventi e contrabbandieri
che ha messo gli occhi sulla sua nave, la Alexandria. In una notte fatale, il
capitano lascia incustodita la Alexandria per seguire Jenny nel bar dove lavora,
e i banditi gelosi ne approfittano per saccheggiargli la nave. Brandt perde la
carica di capitano e decide di imbarcarsi su una nave diretta in Australia, ma
i buoni propositi si dissolvono al pensiero di Jenny, e rimane a terra. (Il titolo
alternativo del film era Gestrandet – ovvero “Arenato”).
Poi si lascia coinvolgere nei bassi intrighi del bar, e viene incriminato, con
prove false, di un omicidio. Jenny, trasformata dall’amore, scopre il vero
assassino, e i due amanti sperano di poter ricominciare insieme una vita rispettabile.
L’imponente cast del film include alcuni tra i più popolari attori
della Ufa di quel periodo, tra cui il sorridente idolo delle donne Willy Fritsch
(che di lì a breve sarebbe apparso al fianco di Lilian Harvey in una fortunata
serie di musical), l’attraente attrice di commedia Jenny Jugo nelle vesti
della tentatrice del porto, e Fritz Rasp (il caratterista apparso in molti film
di Pabst e Lang, che interpretava il ‘cattivo’ inseguito dai bambini
in Emil und die Detektive) nel ruolo di uno dei banditi. Questo dramma
a tinte fosche dette modo a Fritsch di emanciparsi da una interminabile serie
di ruoli giovanili – ma la vera star del film rimane indubbiamente la suggestiva
atmosfera poetica della sua “location” sul fronte del porto. (Catherine
A. Surowiec, The LUMIERE Project: The European Film Archives at the Crossroads,
1996).
Erich Waschneck (Grimma, Sassonia, 1887–1970, Berlino Ovest) studiò pittura
a Lipsia, e lavorò come cartellonista. Nel 1920, grazie al fratello Kurt
Waschneck, producer presso la Projections-AG “Union” (PAGU), ottenne
un lavoro di assistente operatore; l’anno seguente diresse la fotografia
del fiabesco Der Kleine Muck di Wilhelm Prager. Iniziò la sua
carriera di regista nel 1924, con il kulturfilm Der Kampf um dieScholle,
anche se legò la sua fama soprattutto ai film d’avventura quali Mein
Freund, der Chauffeur, con Hans Albers, e a numerosi altri film con Olga
Tschechowa. Il dramma sull’immigrazione Die geheime Macht (1927),
con Michael Bohnen e Suzy Vernon, si rivelò un grosso successo a New York
(dove era stato distribuito con il titolo Sajenko, the Soviet). Dopo Die
Carmen von St. Pauli, in cui seppe sfruttare mirabilmente le atmosfere del
porto di Amburgo, nel 1929 Waschneck allacciò di nuovo il suo sodalizio
con Olga Tschechowa (Die Liebe der Brüder Rott; il dramma in costume Diane)
e realizzò due eleganti esplorazioni nel mondo del glamour cittadino, Die
Drei um Edith e Skandal in Baden-Baden. Adattatosi senza problemi
al sonoro, nel 1932 divenne un produttore indipendente con la Fanal-Film GmbH
e per qualche tempo si allontanò dalle produzioni di routine imposte dagli
studios. 8 Mädels im Boot e Abel mit der Mundharmonika traevano
la loro forza estetica soprattutto dalle suggestive riprese in esterni ed erano
destinati al pubblico più giovane. 8 Mädels im Boot (1932)
conferì a Karin Hardt lo status iconografico della donna bionda, sportiva,
moderna; lei e Waschneck si sarebbero sposati l’anno seguente.
Con Hitler al potere, Waschneck realizzò melodrammi e storie di donne
in linea con i dettami cinematografici del nazionalsocialismo. Film quali Anna
Favetti, con Brigitte Horney, contribuirono a creare il mito della donna
dedita al culto paterno, e votata al sacrificio. Ma con l’antisemita Die
Rothschilds (1940), Waschneck passò dall’intrattenimento “apolitico” alla
propaganda diretta della politica di distruzione e annientamento del nazismo. Affäre
Roedern (1944), una trasfigurazione della storia prussiana, fu solo un altro
prodotto di propaganda camuffato da film storico.
Waschneck non diresse altri film fino al 1952 (Drei Tage Angst, un’altra
storia di ambiente giovanile). Molti nuovi progetti rimasero sulla carta. Prima
di ritirarsi a vita privata, assunse la supervisione di Acht Mädels
im Boot (1959), un remake tedesco-olandese del suo vecchio successo, diretto
da Alfred Bittins. (Estratto da ConciseCineGraph) |
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RUTSCHBAHN (Luna Park / The Whirl of Life) (Eichberg-Film
GmbH, Berlin, per/for British International Pictures, London,
DE 1928)
Regia/dir., prod: Richard Eichberg; scen: Adolf Lantz,
Helen Gosewish, Ladislaus Vajda, dal romanzo/from the novel Das
Bekenntnis di/by Clara Ratzka; f./ph: Heinrich Gärtner; scg./des:
Robert Herlth; cast: Fee Malten (Heli), Heinrich George (Jig Hartford),
Fred Louis Lerch (Boris Berischeff), Harry Hardt (Sten), Erna Morena (Blida),
Arnold Hasenclever (Olaf), Szöke Szakall (Sam), Jutta Jol (Sonja),
Grete Reinwald (Nadja Berischeff); riprese/filmed: 1928; data
v.c./censor date: 5.12.1928; première: 20.12.1928,
Alhambra, Berlin; lg. or./orig. l.: 2703 m.; 35mm, 2468 m., 89’ (24
fps); fonte copia/print source: Nederlands Filmmuseum, Amsterdam.
Didascalie in olandese / Dutch intertitles.
“La quantità di incongruenze che caratterizza la trama di questo
film scoraggia qualsiasi tentativo di disanima critica,” scrisse Mordaunt
Hall su The New York Times (25 marzo 1929), Ottanta anni dopo, le deficienze
strutturali di Rutschbahn sono ancora evidenti, ma appaiono eclissate
dalla sbrigliata fantasia visiva e dalla brillante caratterizzazione dei personaggi.
Gli elementi della trama sono senza meno eccessivamente elaborati: Heli uccide
accidentalmente il malvagio patrigno con un’ascia (peraltro molto accuratamente)
affilata. Fortuna vuole che Nadja, una giovane russa Bianca émigrée
che la famiglia ha adottato, muoia nelle stesse ore, permettendo così a
Heli di assumerne l’identità e rifugiarsi a Londra. Dove ha la ventura
di incontrare Boris, il fratello della ragazza morta. I due giovani si innamorano,
stabilendo così le premesse di uno strano triangolo amoroso. Heli e Boris
non possono infatti dichiarare apertamente il loro amore perché tutti
li credono fratello e sorella e si procurano stentatamente da vivere come musicisti
ambulanti, in compagnia dell’esuberante Sam (Szöke Szakall). Nel frattempo,
il famoso clown Jig (Heinrich George) si invaghisce di Heli, e accoglie Boris
e Heli nel suo spettacolo. L’epilogo offre a George l’opportunità di
esibirsi in un virtuosistico “numero di clown col cuore spezzato” al
cui confronto il professor Rath di Jannings in Der Blaue Engel (L’angelo
azzurro, 1930) sembra peccare di ritegno.
Ma, tutto sommato, George è talmente bravo da farsi perdonare anche gli
eccessi. Figura di grande rilievo nel teatro e nel cinema del Terzo Reich, George
venne arrestato dall’Armata Rossa dopo la caduta di Berlino, e morì nel
campo di concentramento sovietico di Sachsenhausen nel 1946. Altri attori presenti
nel cast del film sono vissuti molto più a lungo: l’affascinante
Fee Malten (qui diciassettenne, nel ruolo di una sedicenne), la cui carriera,
a partire dal 1933 si svolse a Hollywood, è morta nel 2005. Il caratterista
ungherese Szöke Szakall (col nome di S.Z. “Cuddles” Sakall)
divenne un volto familiare nei film hollywoodiani degli anni ’40: ma questa è probabilmente
l’unica occasione in cui il corpulento comico avrà modo di indossare
un kilt scozzese.
Lo stile visivo di Eichberg – con il sostegno del suo fedele cameraman
Heinrich Gärtner – è sempre originale; e le sequenze girate
dal vivo negli ambienti teatrali di Londra o nel Giardino d’inverno di
Berlino sono altamente suggestive. Parte del fascino del film deriva anche dalle
sue affinità con la storia di St. Martin’sLane (la
vita degli artisti di strada; le complicazioni del triangolo amoroso nel mondo
dello spettacolo): Erich Pommer, co-produttore e co-sceneggiatore del film inglese
del 1938, ufficialmente non ebbe alcun legame con la produzione di Rutschbahn,
ma appare più che probabile che sia stato influenzato dal ricordo ancora
vivo dei giorni trascorsi in Germania. – David Robinson
Richard Eichberg (Berlino, 1888-1953, Monaco). A lungo trascurato
dagli storici del cinema, Eichberg è stato uno dei più importanti
registi del cinema popolare tedesco dagli anni ’10 agli anni ’30,
specializzandosi in film polizieschi, commedie e melodrammi esotici. Abile costruttore
di divi, mise in luce talenti diversissimi quali Lilian Harvey, Anna May Wong,
e Marta Eggerth. Dopo inizi teatrali, nel 1912 debuttò nel cinema come
attore, e nel 1915 come produttore e regista di Strohfeuer. Das
Tagebuch Collins fu il primo di una serie di drammi polizieschi con Ellen
Richter. Durante la prima guerra mondiale, diresse Die im Schatten leben,
un documentario sui bambini nati fuori dal matrimonio, e il melodramma di attualità Im
Zeichen der Schuld, per promuovere la riabilitazione degli ex carcerati.
Nel 1918 sposò Lee Parry, offrendole la possibilità di mettere
in luce il suo talento di ballerina e acrobata con una nutrita serie di star-vehicles.
Un successivo finanziamento dello studio Emelka di Monaco gli fornì budget
più grossi, anche se, ad esclusione dello storico/epico Monna Vanna,
continuò a dedicarsi ai generi popolari.
Dopo la separazione da Lee Parry, Eichberg curò il lancio dell’inglese
Lilian Harvey, facendone in breve tempo una grande star della commedia con Die
tolle Lola e altri film. Der Fürst von Pappenheim (The
Masked Mannequin), una farsa di travestimenti con Curt Bois, lanciò un’altra
scoperta di Eichberg, Mona Maris. Quando nel 1928 Lilian Harvey passò alla
Ufa, Eichberg firmò un accordo di co-produzione con la British International
Pictures, concentrando la propria attività su una serie di melodrammi
strappalacrime con l’attrice americana di origine cinese Anna May Wong
(Song / Show Life, e Großstadtschmetterling / Pavement
Butterfly). La sua carriera con la BIP proseguì nel sonoro, provvedendo
al lancio di Hans Albers con il thriller poliziesco di produzione inglese Der
Greifer (Night Birds), che in Germania fu un grosso successo; poi
lanciò la carriera cinematografica della cantante Marta Eggerth con Der
Draufgänger (The Dare-Devil). Poi fu la volta di una lunga
serie multilingue di film d’avventura girati in Europa, coronata dal fortunato
remake sonoro Ufa del serial avventuroso in due parti di Joe May, Das Indische
Grabmal e Der Tiger vonEschnapur (1938). Il successo di
quest’ultimo incoraggiò Eichberg a emigrare negli Stati Uniti. Dove
però non risulta aver mai lavorato. I suoi ultimi due film, realizzati
nel 1949 dopo il suo ritorno in Germania, ripresero la vecchia formula – spettacolarità,
esotismo, intrattenimento leggero – ma senza successo. (Estratto da Concise
CineGraph) |
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DER KAMPF DER TERTIA (Terra-Film AG,
Berlin, DE 1929)
Regia/dir: Max Mack; scen: Axel Eggebrecht, Max Mack, dal
romanzo di/from the novel by Wilhelm Speyer; f./ph: Emil
Schünemann; scg./des: Hans Jacoby; cast: Karl Hoffmann
(il Grande Elettore/The Great Elector), Fritz Draeger (Reppert),
August Wilhelm Keese (Otto Kirchholtes), Gustl Stark-Gstettenbaur (Borst),
Ilse Stobrawa (Daniela), Hermann Neut Paulsen (insegnante/teacher),
Aribert Mog (insegnante/teacher), Rudolf Klein-Rohden (borgomastro
di Boestrum/Burgomaster of Boestrum), Max Schreck (Biersack), Fritz Greiner
(agente/constable Holzapfel), Fritz Richard (scrivano comunale/town
council clerk Falk), allievi della scuola di Boestrum/pupils from
Boestrum school; riprese/filmed: 1928; data v.c./censor
date: 21.12.1928; première: 18.1.1929, Mozartsaal,
Berlin; lg. or./orig. l.: 2978 m.;35mm, 2572 m., 101’ (22
fps), col. (imbibizione originale riprodotta su pellicola a colori/printed
on colour stock, reproducing original tinting); fonte copia/print
source: Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung, Wiesbaden.
Didascalie in tedesco e francese / German & French intertitles.
“Der Kampf der Tertia” [La battaglia del ginnasio, 1928]
di Wilhelm Speyer fu un grosso best-seller nel fiorente filone letterario anni ’20
di storie ambientate nel mondo della scuola: e infatti, poco dopo, fu seguito
da “Emil und die Detektive” di Erich Kästner, anch’esso
destinato a vari adattamenti per il cinema. Su un’isola lontana dalla costa,
gli alunni adolescenti di una “Tertia” – il terzo-quarto anno
di una scuola secondaria tedesca – sono molto fieri della loro indipendenza
e ribellione dalle convenzioni di Boestrum, la vicina città sulla terraferma.
I ragazzi vengono a sapere che Biersack, il malvagio pellicciaio di Boestrum
(Max Schreck, in una seconda apparizione affatto degna del suo ruolo in Nosferatu)
ha convinto il consiglio locale a far radunare e uccidere tutti i gatti della
città – ovviamente per farsi consegnare le pelli scuoiate. Gli scolari
scendono sul piede di guerra, e la loro campagna – che include il rapimento
del terrorizzato Biersack – si concluderà nel migliore dei modi.
Con un cast composto in gran parte dagli alunni della scuola di Boestrum, Mack
rivela una straordinaria sensibilità nel ritrarre i sentimenti e la vitalità della
prima adolescenza. Il film smentisce inoltre il persistente luogo comune che
vuole il cinema di Weimar rigidamente legato al lavoro di studio, con ricostruzioni
scenografiche di stampo teatrale. La smagliante fotografia di Emil Schünemann
riesce a cogliere mirabilmente il contrasto atmosferico tra i paesaggi marini – il
terreno di gioco senza confini dei ragazzi sulla spiaggia, l’isolotto – e
il grigiore borghese della città di Boestrum. Il film ho uno sviluppo
abbastanza lento, che consente a Mack di approfondire le accattivanti caratteristiche
individuali dei suoi giovani protagonisti. Il pubblico odierno, col senno di
poi, potrà rimanere un po’ più sconcertato dalle imprese
di una gang di giovinastri fanatici che terrorizza una città e imbratta
di slogan (pro felini) i muri delle case. Il ruolo sociale dominante dell’unica
ragazza del film, Daniela, è un non comune segno di protofemminismo: l’incantevole
attrice che la interpretò, la allora diciassettenne Ilse Stobrawa, intraprese
una modesta carriera cinematografica che durò fino al 1943. – David
Robinson
Max Mack (Moritz Myrthenzweig; Halberstadt, Sassonia-Anhalt,
1884-1973, Londra), figlio di un cantore di sinagoga, lasciò la casa paterna
nella classica tradizione ‘Jazz Singer’ per diventare un
attore girovago. Ottenne qualche successo a teatro, specializzandosi in ruoli
di orientale Nel 1906 adottò il nome d’arte Max Mack, e nel 1910
si trasferì a Berlino. Poco dopo iniziò a lavorare nel cinema,
dove ebbe modo di rivelare il suo talento di attore comico (e di sceneggiatore).
Nel 1911 esordì nella regia, lavorando per la Continental-Filmkunst, la
Eiko, e la Vitascope, arrivando a produrre fino a due film al mese. Nel 1913,
i film operetta Wo ist Coletti?, Die Tango-Königin, e Die
blaue Maus gli procurarono un discreto successo, ma fu la prestigiosa produzione
di Der Andere – una variazione sul tema “Dr. Jekyll and
Mr. Hyde” con il famoso attore di teatro Albert Bassermann – ad elevare
il lavoro di Mack allo status di autorenfilm. Durante questo periodo, Mack scrisse
anche due libri sulla pratica cinematografica.
Nel 1917 fondò una propria casa di produzione, la Max Mack-Film GmbH.
A questa, nel corso del tempo, ne seguiranno altre due, la Solar-Film GmbH e
la Terra-Film. Durante gli anni ’20, Mack diresse una media di tre film
all’anno. La sua produzione fu piuttosto eclettica, ma con una netta propensione
per l’operetta e lo stile del varietà. Verso la metà degli
anni ’20, iniziò una fruttuosa collaborazione con Ossi Oswalda e
Willy Fritsch; e i suoi gusti si rivelarono perfettamente congeniali alla nuova
era del sonoro. Costretto ad emigrare perché ebreo, giunse – via
Praga e Parigi – a Londra, dove diresse lo sfortunato Be Careful, Mr.
Smith (1935, ma distribuito solo nel 1940, col titolo Singing Through).
In Inghilterra fondò una sua casa di produzione dalla vita piuttosto breve,
la Ocean Films, tra i cui progetti rimasti sulla carta figurava un remake del
griffithiano Orphans of the Storm. In seguito, scrisse le sue memorie,
tradusse copioni di commedie del repertorio boulevardier francese ad uso di alcune
compagnie amatoriali inglesi, sposò una ricca vedova, e si stabilì a
Hampstead, Londra – finalmente in un porto sicuro. (Estratto da Concise
CineGraph) |
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Supplemento
alla retrospettiva / Supplementary to the main
Weimar programme
Weimar CineSalon
Nel corso di informali incontri pre-serali al “CineSalon”,
gli ospiti delle Giornate potranno approfondire la loro conoscenza di
film e personalità dell’“altra Weimar”. Sono
previste proiezioni di documentari e conversazioni con i curatori e i
collaboratori della retrospettiva, fra cui Hans-Michael Bock, David Robinson,
Geoff Brown e il filmmaker e produttore di DVD Robert Fischer. Lunedì sarà presentato
il documentario Ernst Lubitsch in Berlin (si veda la relativa
scheda nella sezione “Video Shows” di questo catalogo). Martedì e
giovedì sarà la volta di altri registi e attori. Venerdì,
con la partecipazione delle istituzioni promotrici del progetto sulle
versioni multiple – Spring School di Gradisca, Università di
Udine e CineGraph di Amburgo –, verrà infranta la barriera
del suono con una conferenza illustrata di Robert Fischer sulle edizioni
nelle varie lingue del film M di Fritz Lang. Il “CineSalon” è aperto
dalle ore 18 tutti i giorni infrasettimanali, escluso mercoledì.
Gli organizzatori del CineSalon ringraziano / The CineSalon organizers
wish to thank: Absolut Medien (Berlin), The Criterion Collection/Janus
Films (New York), Fiction Factory (München), Kinowelt/Arthaus
(Leipzig), Transit Film (München), Deutsche Kinemathek (Berlin).
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