The Griffith Project, 11: i film prodotti dal 1921 al 1924
Schede film


Prog. 1
[PROLOGO A “DREAM STREET”]
Regia/dir.: D.W. Griffith; cast: D.W. Griffith; 35mm (sonoro/sound), ??? ft., ???’ (24 fps), UCLA Film & Television Archive, Los Angeles.
Dialoghi in inglese/English dialogue.

Indipendentemente dal suo eventuale contributo al successo commerciale del film all’epoca della sua distribuzione, questo breve prologo a Dream Street [La strada de sogni] riveste oggi un’enorme importanza storica essendo ciò che più si avvicina a una documento sonoro dello stile interpretativo di Griffith. Guardando direttamente in macchina, il regista annuncia con svogliata lentezza: “Signore e signori, mi è stato chiesto di pronunciare poche parole su Dream Street, l’opera cui state per assistere.” Poi, esauriti i preliminari, assume un tono più magniloquente, proclamando in maniera altisonante: “La strada dei sogni! Non esiste forse una strada dei sogni che attraversa il cuore e l’anima di ogni essere umano al mondo?” Ma a quel punto, con nostra somma frustrazione, il frammento si interrompe. Griffith aveva costruito la sua fama anche grazie allo stile recitativo intimo e realistico che aveva introdotto nei suoi film, ma le sue radici erano nel teatro. Questo breve filmato ci consente di farci un’idea della voce risonante con cui raggiungeva gli spettatori delle ultime file – e con cui, successivamente, avrebbe diretto gli attori dei suoi classici. – J.B. Kaufman [DWG Project # 602]
 
Il procedimento Kellum era un sistema di sonorizzazione su dischi, simile al Kinetoscope di Edison e – nel suo uso di un unico meccanismo a manovella che azionava contemporaneamente disco e proiettore per mantenere costante (se e quando tutto funzionava a dovere) la sincronizzazione – al Vitaphone. Il discorso pronunciato da Griffith in Dream Street è registrato con sufficiente perizia, pur senza raggiungere gli standard del sistema Vitaphone, che però aveva beneficiato di cinque anni in più di ricerca e dell’esperienza tecnologica dei laboratori Bell. Ma forse il motivo principale che impedì una più ampia diffusione del procedimento Kellum dipese dall’adesione piuttosto marginale che aveva ottenuto: Sam Moore e la sua “sega canterina”, non Al Jolson; Dream Street, non Broken Blossoms (1919). Certo, Broken Blossoms non sembrava aver bisogno di elementi estranei come i fischi e gli scampanellii creati dal sonoro nel 1921. – Scott Eyman [DWG Project # 602]
 
 
DREAM STREET (Amore d’altri tempi)
Regia/dir.: D.W. Griffith; cast: Carol Dempster, Ralph Graves, Charles Emmett Mack, Edward Peil; 35mm, 9,096 ft., 135’ (18 fps), The Museum of Modern Art, New York.
Didascalie in inglese / English intertitles


D
ream Street, distribuito tra due degli ultimi grandi film di Griffith – Way Down East (Agonia sui ghiacci; 1920) e Orphans of the Storm (Le due orfanelle; 1922) – non regge assolutamente il confronto. Ma già ai tempi della Biograph s’è visto quante volte i congestionati piani di lavorazione di Griffith portassero all’uscita di one-reelers magistrali assieme a titoli assai pedestri. Lo stesso accade qui. Indubbiamente, ci sarebbe piaciuto scoprire in Dream Street le qualità stilistiche o narrative, finora inosservate, di un capolavoro misconosciuto, o, più semplicemente, quelle di un buon film. Al contrario, gli aspetti più interessanti di Dream Street risiedono proprio nelle sue strane contraddizioni e nella ripetizione di temi già presenti in precedenti opere dello stesso Griffith, dai titoli Biograph ai più recenti lungometraggi. 
A quanto risulta, le riprese di Dream Street furono effettuate tra la fine dell’autunno del 1920 e i primi mesi del 1921. E sicuramente il montaggio del film era già in una fase molto avanzata per permettere l’anteprima del 16 marzo 1921. DreamStreet fu il primo film girato da Griffith dopo la costituzione – il 30 giugno 1920 – della sua società di produzione, la D.W. Griffith Inc. All’epoca, Griffith si trovava in seri guai economici, ma il clamoroso successo di Way Down East (distribuito nel settembre del 1920) gli consentì un graduale riassesto finanziario. Chiaramente, l’intento iniziale di Griffith era quello di produrre un film sulla falsariga di Broken Blossoms(Giglio infranto; 1919) attingendo di nuovo ai racconti di Thomas Burke, l’autore di “The Chink and the Child” da cui quel film era tratto. Usando lo pseudonimo di Roy Sinclair, Griffith prese altri due brevi racconti di Burke presenti nella stessa raccolta, intitolata Limehouse Nights, e li fuse in un’unica sceneggiatura. E sebbene una didascalia iniziale precisi che la vicenda non è ambientata in uno specifico slum, i dettagli scenografici rievocano immediatamente il Limehouse di Broken Blossoms
A grandi linee, la storia di DreamStreet rappresenta un semplice rovesciamento di quella di BrokenBlossoms. Là dove l’eroina del primo film, interpretata da Lillian Gish, era una creatura ingenua e indifesa, Gypsy è una fanciulla esperta della vita di strada, esuberante e sicura di sé. Suo padre, lungi dall’essere un bruto della risma di Battling Burrows, è un povero invalido, che lei ama e provvede a mantenere. E al posto del cinese interpretato da Richard Barthelmess – un personaggio quasi santo – qui troviamo il sinistro criminale Sway Wan. La situazione è però complicata dall’aggiunta di due fratelli, l’uno diverso dall’altro, che si innamorano entrambi di Gipsy: l’aggressivo “Spike” McFadden e il timido Billie, che adora il fratello maggiore. Curiosamente, Spike ha una camminata che richiama l’andatura impettita del “duro” Burrows. 
Ma mentre in Broken Blossoms la delicata eroina e il personaggio del cinese destavano grande simpatia, qui, purtroppo, come scrive Richard Schickel, “nessuno dei personaggi risulta particolarmente interessante per le sue azioni o i suoi modi”. Spike, che in definitiva dovrebbe incarnare l’eroe romantico, passa quasi tutta la parte iniziale del film a tentare di sedurre o violentare la protagonista, per poi lasciarsi redimere da una improvvisa quanto poco plausibile conversione religiosa che lo trasforma in un sentimentale rammollito. Egli comunque non trasmette mai il senso di innata gentilezza che caratterizza l’Uomo Giallo di BrokenBlossoms, il quale reprime la sua attrazione sessuale per l’eroina (attrazione che peraltro emerge in un’unica scena). Gipsy è interpretata da Carol Dempster con quello che un critico dell’epoca definì stile “salterino” – una definzione riferibile ad altre interpretazioni femminili dei film muti di Griffith. 
Pochi altri film nella storia di Hollywood fanno affidamento sulle coincidenze come Dream Street. Le coincidenze, naturalmente, hanno sempre avuto libero corso nella narrativa classica, ma in genere si auspica che il loro uso, oltre che limitato, non interferisca mai coi momenti chiave dell’azione. Il film di Griffith abusa palesemente delle casualità, sia nella loro accezione positiva che in quella negativa. In una scena, Gipsy e una sua amica trascorrono un pomeriggio domenicale passeggiando lungo la riva di un fiume. Lì incontrano Spike. Gipsy respinge le sue rozze avance, e le due ragazze si accingono a tornare sui loro passi. Spike, consapevole dell’effetto ammaliatore della propria voce sulle donne, comincia a cantare. Naturalmente, le due ragazze si fermano ad ascoltarlo, mentre una didascalia descrittiva rivela: “Il caso vuole che un grande impresario teatrale, in cerca di colore locale…” E a determinare il lieto finale del film sarà proprio l’impresario teatrale, che, dopo aver scoperto il talento canoro di Spike, le meravigliose danze di Gipsy e il genio di Billie nel comporre canzoni, catapulterà tutti e tre nel regno dei ricchi e famosi. Altre coincidenze: Billie, folle di gelosia, capita casualmente nel vialetto di fronte al caseggiato in cui vive Gipsy, giusto in tempo per cogliere Spike impegnato nella sua dichiarazione d’amore; in seguito, lo stesso Billie, dopo aver commesso un delitto di cui viene incolpato Spike, corre a rifugiarsi nell’appartamento di un amico – che, guarda caso, vive nello stesso casamento di Gipsy. 
Anche sul piano stilistico, Griffith cercò di replicare i fasti di BrokenBlossoms. Il “pittorialista” Hendrik Sartov, che in collaborazione con Billy Bitzer avevaintrodotto nel lavoro di Griffith l’elegante effetto flou, è ora il solo responsabile della fotografia. Quella di Dream Street è una fotografia che esaspera i toni sognanti e sfumati della pellicola precedente. Avvalendosi delle attrezzature del suo nuovo studio a Mamaroneck, New York, Griffith girò il film in pieno inverno, ricostruendo tutti i set in interni, con un cospicuo numero di palesi fondali dipinti che riproducevano lo skyline londinese con la stella polare e vari altri luoghi. L’innovativo sistema d’illuminazione basato su tre luci che stava diventando di uso standardizzato nella cinematografia classica hollywoodiana, appare piuttosto evidente anche in Dream Street, sfatando il luogo comune che Griffith non adottasse mai i nuovi canoni del cinema commerciale. D’altro canto, nella mise en scène del film emergono distintamente alcuni momenti molto datati, come accade ad esempio nella scena in cui Billie irrompe nell’appartamento di Gipsy per impedire al fratello Spike di violentarla: tutti e tre rimangono impietriti in un tableau di singolare durata. 
Dream Street non contribuì affatto ad assicurare un futuro solido alla nuova società di produzione di Griffith. Anzi, il film perse all’incirca 150.000 dollari, una somma tutt’altro che trascurabile per quei tempi. E neanche i film successivi, benché di esito migliore, procurarono guadagni tali da garantire a Griffith il mantenimento di una propria società di produzione; anche se, sul piano artistico, egli seppe risollevarsi dall’impasse di Dream Street. – Kristin Thompson [DWG Project # 601]

 

Prog. 2
ORPHANS OF THE STORM (Le due orfanelle) (D.W. Griffith, Inc., US 1921)
Regia/dir.: D.W. Griffith; cast: Lillian Gish, Dorothy Gish, Joseph Schildkraut, Frank Losee, Morgan Wallace, Lucille La Verne, Sheldon Lewis, Frank Puglia, Creighton Hale, Monte Blue; 35mm, 11,208 ft., ???’ (??? fps), Photoplay, London.
Didascalie in inglese / English intertitles.


Come si evince dai titoli di testa del film, Orphans of the Storm era basato su The Two Orphans di Eugène Cormon e Adolphe D’Ennery. Il dramma originale, intitolato Les deux orphelines, aveva debuttato al parigino Théâtre de la Porte Saint-Martin nel gennaio del 1874. Accolto da buone critiche e da un enorme successo di pubblico, il testo divenne subito oggetto di pirateria da parte di anonimi traduttori che rivendevano sottobanco le loro versioni in inglese ad impresari stranieri i quali si affrettavano a mettere in scena queste illecite traduzioni prima di incappare nei rigori della legge. Contemporaneamente, ma con tempi di attesa più lunghi per poter disporre di copioni rappresentabili, più scrupolosi impresari londinesi e newyorkesi avevano negoziato i diritti per gli adattamenti autorizzati di John Oxenford (Londra) e di N. Hart Jackson (New York), quest’ultimo per A.M. (Harry) Palmer, manager dello Union Square Theatre di Manhattan. Le versioni non autorizzate del dramma – per certi versi più fedeli al testo originale francese rispetto agli adattamenti, alterati per assecondare i gusti degli spettatori di Londra e di New York – erano state bloccate dalla legge ma non vennero mai estirpate del tutto dal repertorio. Queste traduzioni pirata rispuntavano periodicamente nel circuito rurale americano e, in seguito, compromisero l’acquisizione dei diritti della versione teatrale americana di Jackson-Claxton da parte di Griffith. Gli stessi testi non autorizzati incoraggiarono il regista a modificare alcuni elementi della trama per accrescere la suspense del film. 
La versione autorizzata di N. Hart Jackson aveva debuttato nel dicembre 1874, con la ventiseienne Kate Claxton nel ruolo di Louise e un’altra popolare giovane attrice del momento, Kitty Blanchard, in quello di Henriette. La Blanchard sarebbe poi passata ad altri ruoli, mentre Kate Claxton si identificò a tal punto con la sfruttata e maltrattata orfanella cieca che, subito dopo il 1874, si fece cedere da Palmer e Jackson i diritti per il mercato americano, e, fondata una sua “combination company” (vale a dire che il melodrammatico copione di Jackson veniva integrato con numeri musicali e di varietà), si esibì nei teatri dell’entroterra americano per oltre un trentennio, con una grande ripresa finale a New York nel 1904. Nel 1921 Griffith acquisì da Kate Claxon quelli che lui riteneva fossero i diritti esclusivi sul dramma per poi scoprire che tali diritti erano invece scaduti. Il regista avrebbe in seguito appreso che, in virtù della versione cinematografica prodotta da William Fox nel 1915 e diretta da Herbert Brenon, con Theda Bara nel ruolo di Henriette e Jean Sothern in quello di Louise – versione a quanto pare basata su svariate rielaborazioni, autorizzate e no, del copione –, il copyright americano era ora nelle mani di Fox. Era quindi necessario venire a patti direttamente con Fox. Pertanto, la frase “in base agli accordi raggiunti con Kate Claxton” che appare nei titoli di testa di Orphansof the Storm nasconde opportunamente la vexata quaestio del copyright che Griffith preferisce elidere. 
La versione Palmer-Jackson-Claxton del dramma era composta da sette scene inizialmente divise in quattro atti che partire dagli anni Novanta diventarono tre. Ansioso di emulare il più possibile la produzione di Parigi, Palmer aveva inviato il suo direttore di scena al Théâtre de la Porte Saint-Martin per ottenere i bozzetti dei costumi originali, i disegni e i plastici delle scenografie ammirati dagli spettatori parigini. Quattro di quelle scenografie sono fedelmente riprodotte nel film di Griffith: le strade parigine in cui le due orfanelle giungono in città e vengono separate; il covo sotterraneo dei Frochard; la facciata occidentale di Saint-Sulpice, con tanto di tempesta di neve ricreata sul set dagli effetti speciali di Richard Marston; e la sequenza che si apre sul carcere femminile della Salpetrière, dove Henriette, tradita da Robespierre e arrestata e fatta imprigionare dal conte De Linières, sta per essere deportata nella colonia penale della Cayenna, lontano dalle premurose attenzioni del suo aristocratico corteggiatore, il cavaliere De Vaudrey. Alcuni dei bozzetti di scena, già molto familiari e popolari tra gli spettatori del dramma teatrale, furono riprodotti anche sulle copertine degli spartiti con le canzoni e la musica di scena di Henry Tissington, direttore dell’orchestra dello Union Square Theatre, che le aveva fatte pubblicare in versione semplificata per piano. 
Sia nella versione parigina che in quella americana, l’azione di The Two Orphans si svolge interamente nell’anno 1784. E la Rivoluzione non vi figura affatto: né le prime rivolte del 1789, né il Terrore del 1794. Elementi quali la presa della Bastiglia, il tribunale, la ghigliottina, il Comitato di Salute Pubblica, Danton, Robespierre e le danze orgiastiche della carmagnola provengono invece – e rimangono pressoché inalterati – da opere di altri drammaturghi di epoca vittoriana. In The Two Orphans, la tensione sociale e la protesta politica emergono unicamente dagli accenni ai ripetuti rinvii di una rappresentazione del Mariage de Figaro di Beaumarchais cui dovrebbe presenziare de Vaudrey. In The Two Orphans mancano anche il prologo con l’assassinio del primo marito della contessa De Linière, il rapimento della figlioletta Louise, il salvataggio di Louise che viene raccolta sui freddi gradini della chiesa e portata nella povera famiglia in cui vive la piccola Henriette. Griffith avrebbe trovato i modelli per il suo prologo in altri drammi. La pièce teatrale comincia invece con l’arrivo a Parigi delle due “sorelle”, il rapimento di Henriette e l’inserimento forzato di Louise nella famiglia Frochard. In seguito, Henriette incontra De Vaudrey, che, casuale e inorridito spettatore di un’orgia in casa del marchese De Praille, la aiuta a mettersi in salvo.
Nel testo teatrale, l’idillio tra Henriette e de Vaudrey si sviluppa molto più lentamente che nel film di Griffith: sono le vicissitudini di Louise, più che la storia d’amore, a generare tensione e ansia nel pubblico. La compassione per Louise viene accentuata dalla malinconica canzone da lei cantata mentre mendica per le strade e i cui versi non sono stati finora ritrovati, mentre la melodia di Henry Tessington è ripresa e citata nell’andante della partitura del 1921 preparata per il film da Louis F. Gottschalk e William Frederick Peters. Il copione teatrale di Jackson richiede una serie di angosciosi contrattempi che impediscono alle due sorelle di ritrovarsi, finché il pubblico, sollevato dalla tensione, è disposto ad accettare come del tutto plausibile il loro casuale ricongiungimento. Una delle più evidenti ed ingegnose varianti griffithiane rispetto a The Two Orphans è stata quella di dare maggiore peso al personaggio di Henriette. Questo riequilibrio dei ruoli, che rende Louise – tenuta prigioniera e minacciata sessualmente da Jacques Frochad – ancor più passiva e impotente rispetto alla disperazione di Henriette e al suo quasi inutile tentativo di rintracciare la sorella, amplia palesemente il ruolo di Lillian Gish. Il personaggio di Henriette è ulteriormente sviluppato dalle sua non premeditata offerta di asilo a Danton, dalla conseguente malevolenza nei suoi confronti di Robespierre e dalla rinuncia all’amore e al matrimonio fino a che non sia stata ritrovata Louise. E interpretare le sfumature delle emozioni più complesse – amore, paura, sconcerto, diniego – ha sempre rappresentato la pièce de résistence nello sperimentato repertorio espressivo di Lillian Gish. Il copione francese e quello inglese rievocano entrambi le colpe segrete della Contessa – il primo matrimonio, il rapimento della figlioletta, le seconde infelici nozze – che la nobildonna confida a de Vaudrey per incrinare la fiducia tra il conte de Linières e suo nipote, dissidio che si aggrava ulteriormente quando il conte, giudicando il prossimo a misura della propria moralità, si convince erroneamente che Henriette sia l’amante di de Vaudrey. – David Mayer [DWG Project # 603]



 


Prog. 3
ONE EXCITING NIGHT (Una notte agitata)
Regia/dir.: D.W. Griffith; cast: Carol Dempster, Henry Hull, Porter Strong, Morgan Wallace; 16mm, 3,887 ft., 136’ (19 fps), The Museum of Modern Art, New York.
Didascalie in inglese / English intertitles


Nell’estate del 1922, Griffith cercò di assicurarsi i diritti di TheBat, una fortunatissima pièce teatrale di Mary Roberts Rinehart e Avery Hopwood, che aveva debuttato a Broadway nel 1920, rimanendo in cartellone per ben 878 repliche consecutive. Considerato “il nonno” di tutti i film di genere “mistery con casa infestata”, TheBat narra la vicenda di una donna che prende in affitto la casa di un banchiere, che forse è morto – o forse no – durante un suo viaggio nel Colorado. Fin dai primi giorni di permanenza nella casa, la donna avverte degli strani fenomeni e i ripetuti tentativi di intrusione da parte di qualcuno. Tuttavia, rifiuta di ascoltare chi le consiglia di abbandonare la tenuta. Nella banca dell’uomo dato per morto viene constatato l’ammanco di una grossa somma di denaro, che si sospetta lo stesso banchiere abbia occultato nella propria casa, in attesa del momento opportuno per tornare a recuperarlo di nascosto. Ma la lista di chi aspira al ritrovamento del malloppo è molto lunga: il cassiere della banca ingiustamente accusato del misfatto; un detective intenzionato a risolvere il mistero; un dottore amico di famiglia; un nipote squattrinato; la nipote della donna, coinvolta in una love story col cassiere; e il “Pipistrello” del titolo, un ladro ed assassino che tiene in scacco la polizia locale. 
Non disponendo di abbastanza denaro liquido per acquistare il dispendioso copyright della commedia, che secondo Variety ammontava a ben 150.000 dollari, Griffith fece di necessità virtù scrivendo da solo la storia di una casa infestata. Usando lo pseudonimo di Irene Sinclair – “una giovane scrittrice del Kentucky” – Griffith sviluppò un copione sufficientemente generico da non incappare in problemi di plagio, spingendosi addirittura (nel luglio del 1922) a registrare il copyright del proprio trattamento con il titolo “The Haunted Grange”, anche se poi il prodotto finale risultò notevolmente modificato rispetto all’abbozzo originale. Come protagonista maschile, Griffith scritturò Henry Hull, fresco reduce da un trionfale successo personale a Broadway in un’altra commedia gialla “con casa infestata”, The Cat and the Canary; mentre il personaggio di Agnes Harrington venne affidato a Carol Dempster, che si produce in quella che è tutt’oggi la meno convincente delle sue imitazioni delle sorelle Gish e di Mae Marsh.
Le riprese e il montaggio furono completati senza contrattempi e dopo una proiezione in anteprima, One Exciting Night fu pronto per la distribuzione. Concepito fin dall’inizio come un low-budget, il film confinava l’intera azione scenica nella tenuta di villa Fairfax, buia, claustrofobica e perfettamente congeniale a quel tipo di storia. Ma il prodotto finale apparve troppo modesto agli occhi di Griffith, che avvertiva la mancanza di un climax drammatico appropriato e all’altezza dei suoi passati successi. Gli dava man forte in questo Carol Dempster, che, stando al racconto di almeno un testimone, si era lamentata col regista per la scarsa spettacolarità del film. Fu così che venne girata una dispendiosa scena di tempesta da inserire nel finale. In seguito, Griffith dichiarerà di avere approfittato di una violenta tempesta naturale di metà giugno, ma quella che appare sullo schermo è palesemente artificiale. Con macchine del vento, un enorme parco luci e un ammasso di arbusti e rami d’albero venne creato un mezzo uragano vistosamente finto e privo di ogni efficacia drammatica. Il suo costo elevato (intorno ai 250.000 dollari) provocò uno sforamento tale del budget da rendere ben difficile, per non dire impossibile, realizzare con OneExcitingNight un qualche guadagno. 
Naturalmente, una mal consigliata sequenza di tempesta non rappresentava il problema principale del film. One Exciting Night era sostanzialmente un thriller comico, e, in quanto tale, avrebbe richiesto una sceneggiatura di ferro e una regia dal tocco leggero – qualità che non erano propriamente tra i punti di forza di D.W. Griffith. Per quanto riguarda la comicità, Griffith fece ricorso ai più volgari ed offensivi stereotipi razziali, ritraendo il personaggio di Romeo Washington come un inetto fannullone, il cui tremare di paura alla minima provocazione ogni minima era chiaramente inteso a solleticare il riso sfrenato del pubblico. Inoltre, il personaggio di Romeo era interpretato da Porter Strong, un attore bianco truccato da nero, cosa che rende l’effetto ancora più penoso per un pubblico moderno. Ma gli spettatori di allora non si facevano alcuno scrupolo nell’accettare la convenzione degli attori bianchi con la faccia tinta di nero; e infatti, come si evince dalle recensioni dell’epoca, il pubblico considerava Porter Strong e Irma Harrison, la cameriera, due artisti esilaranti e molto abili nelle loro esibizioni truccati da negri. 
Ma ancor più dell’uso di stereotipi offensivi, è l’incapacità di Griffith di cogliere l’essenza della sua stessa storia – capendo cosa e perché avrebbe potuto farla funzionare al meglio – a determinare il fallimentare risultato di One Exciting Night. Invece di sviluppare con cura la trama e introdurre chiaramente i personaggi, Griffith procede a casaccio su ambo i fronti, ricorrendo a una pletora di didascalie descrittive per mandare avanti la storia e facendo apparire i personaggi quando più gli accomoda. Spesso e volentieri, le motivazioni sono di una tale ovvietà che lo spettatore si chiede il perché di tanto agitarsi sullo schermo. Mani che ghermiscono, personaggi dai travestimenti grotteschi, pannelli che scivolano, porte che cigolano, ombre minacciose che celano terrori sconosciuti sono elementi specifici del genere mistery, ma invece di intrecciarli sapientemente alla trama della sua storia per trarne la massima efficacia, Griffith li cala indiscriminatamente senza ottenere alcun effetto, o quasi, tralasciando di capire che non sono accorgimenti arbitrari per spaventare il pubblico, ma il cuore stesso del congegno e, in primis, il motivo per cui il pubblico presta attenzione alla storia. One Exciting Night non serba la minima traccia della leggendaria abilità manipolatoria di Griffith; e perfino la sequenza della tempesta finale, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto rivaleggiare coi gloriosi finali dei suoi film precedenti, risulta singolarmente piatta. In questo film viene a mancare il suo infallibile senso del ritmo cinematografico, ma forse, in ultima analisi, tutto ciò dipende proprio dalla scarsa affinità di Griffith col genere mistery. Molto prima della fine, il pubblico sa già chi è l’assassino, e nessun disastro naturale ricreato in studio può aiutare One Exciting Night a risollevarsi da una simile, basilare défaillance. – Steven Higgins [DWG Project # 605]


 


 
Prog. 4
THE WHITE ROSE (La rosa bianca) 
Regia/dir.: D.W. Griffith; cast: Mae Marsh, Carol Dempster, Ivor Novello, Neil Hamilton; 35mm, 8,932 ft., 132’ (18 fps), The Museum of Modern Art, New York.
Didascalie in inglese / English intertitles.

The White Rose potrebbe sembrare una rielaborazione di Way Down East, ma con una sorprendente serie di varianti. L’azione, dalla campagna ora generosa ora gelida del New England puritano, si sposta nelle fumose paludi della Louisiana, con le sue aristocratiche e decadenti dimore, i torrenziali rovesci di pioggia e l’onnipresente tillandsia che pende dagli alberi. La diversa ambientazione produce anche una diversità di toni, e la storia della innocente fanciulla di campagna sedotta dal mascalzone di città assume sfumature molto più complesse e contraddittorie. Le figure maschili del seduttore e del salvatore (incarnate nel film precedente da un bellimbusto come Lennox Sanderson e da un giovane fattore come David Bartlett) qui si fondono nella figura ambigua e tormentata di Joseph Beaugardé, che è sia il seduttore sia, alla fine, il marito, ed anche, per complicare ulteriormente le cose, ministro del culto. La tormentata concezione della sessualità e il senso di colpa di Joseph esercitarono una forte attrazione su Griffith e l’attore inglese Ivor Novello interpreta il personaggio come un moderno Arthur Dimmesdale: l’interpretazione forse non è del tutto riuscita, ma ci dà una figura che costituisce tuttora l’indagine più approfondita della sessualità maschile condotta in un film di Griffith. 
Il mito del declino di Griffith viene generalmente associato (e spesso spiegato) con la sua condizione di sorpassato moralista vittoriano sempre più fuori sintonia coi costumi e i dettami stilistici dell’“età del jazz” anni ’20. Questa lettura non solo difetta di sottigliezza, ma soprattutto misconosce una caratteristica fondamentale del cinema di Griffith, che, come sottolinea Ejzenštejn, non è mai mera celebrazione di antiquati valori rurali o accettazione dei ritmi veloci della vita moderna, bensì – crucialmente – una complessa rappresentazione dell’incontro tra questi due mondi opposti. Liquidare Griffith come “antiquato” significa ignorare i suoi talora sofferti tentativi di conciliare il vecchio e il nuovo, di trasferire i valori del passato nel mondo nuovo e viceversa. In quest’ottica, The White Rose può essere letto come la parabola di una donna in pericoloso equilibrio tra sorpassati valori patriarcali di rifiuto dell’espressività sessuale e le allettanti seduzioni del mondo moderno.
La sessualità svolge un ruolo centrale in questo incontro tra il vecchio e il nuovo – e mi riferisco tanto alla sessualità e al desiderio quanto alla differenza tra i sessi. Il ruolo cruciale del desiderio negli intrecci (e negli stilemi) griffithiani è stato anch’esso oscurato dalla tendenza a considerare il regista come un puritano di epoca vittoriana. Così come non è più ammissibile ridurre quest’epoca ad una semplicistica negazione della sessualità, non possiamo trascurare la dimensione sessuale del cinema di Griffith. Ma Griffith non esemplifica semplicemente i costumi sessuali e la morale repressiva dell’epoca vittoriana: analogamente a Thomas Hardy e a Charles Dickens, egli contribuisce al superamento della nozione vittoriana dei ruoli e comportamenti sessuali. Griffith si dibatte fra la devozione al culto della donna ideale, madre e angelo del focolare, e l’attrazione per una figura di donna moderna, con un approccio giocoso alla sessualità. Sono due prospettive che rimangono entrambe intrappolate in una concezione patriarcale e ambivalente del femminile, da cui derivano modelli di genere non proprio progressisti. Ma nei suoi lungometraggi, Griffith rappresenta da un lato la caduta del virginale “angelo del focolare” (Lillian Gish, che può sembrare nata per incarnare questo ruolo, nei film di Griffith lo interpreta spesso in senso tragico) e, al contempo, lascia trasparire una crescente fascinazione per un ruolo femminile alternativo (reso da molti punti di vista attraverso la figura di una ragazza più che di una donna ): la donna che affronta la sessualità come un gioco, come esibizione di fascino. La prima a incarnare questo ruolo è stata Mae Marsh nell’episodio moderno di Intolerance, ruolo che in qualche modo le fornisce la traccia per la Bessie/Teazie di The White Rose. Rispetto all’interpretazione più unidimensionale di questa proto-maschietta data da Clarine Seymour in film quali True Heart Susie, il personaggio di Mae Marsh in The White Rose passa attraverso un’ininterrotta serie di trasformazioni, che, da giocosa donna-ragazza, dopo una melodrammatica odissea di immeritate sofferenze, la tramuterà in una madre e, infine, in una moglie.
A prima vista, le strane dinamiche delle immagini di The White Rose possono sembrare un mero cliché melodrammatico, ma se si spinge oltre il proprio sguardo, diventa evidente che Griffith sta cercando di elaborare una nuova concezione della sessualità e non semplicemente riproponendo un racconto allegorico vittoriano. E tuttavia, questo nuovo interesse nell’esplorazione della sessualità e della sensualità non esenta Griffith, come già Thomas Hardy, da una forte propensione per il tema della colpa. Di qui l’esplorazione del personaggio maschile interiormente diviso del film, in netto contrasto con i ruoli tradizionali del melodramma – il mascalzone senza cuore e il giovane dabbene – di Way Down East. L’atmosfera umida della Louisiana notturna sembra incoraggiare l’espressione della passionalità erotica, e anche la presenza di Mae Marsh al posto di Lillian Gish nel ruolo della donna sedotta e abbandonata contribuisce a determinare un maggior grado di espressività sessuale. Nelle vicende di The White Rose si avverte il coinvolgimento erotico di Griffith sia nella sua identificazione con Teazie, che cerca di esprimere un modello di sessualità moderna pur salvaguardando il concetto tradizionale di brava ragazza, sia nel suo allineamento con il tormentato Joseph, che anela a un nuovo regno di piaceri sensuali ed emozioni lottando nel contempo contro un opprimente senso di colpa.
Non appena iniziata la preparazione di The White Rose, Griffith inviò un telegramma a Mae Marsh (The Griffith Papers, 27 aprile 1921), dicendole di aver rivisto da poco la più grande interpretazione femminile finora apparsa sullo schermo: la sua, nel ruolo della “sorellina”, in The Birth of a Nation. Nel pantheon delle primedonne griffithiane, Mae Marsh viene spesso sottovalutata – cosa che in parte si deve sicuramente all'indiscutibile eccellenza di Lillian Gish, ma anche, io credo, al fatto che The White Rose, dove troviamo la sua interpretazione più complessa, non ha mai goduto di grande attenzione. Mae Marsh, al contrario di Lillian Gish, non era un’attrice di formazione teatrale, ma una ragazzina venuta a visitare uno dei set in esterni della Biograph che Griffith notò e scritturò per la sua somiglianza con l’attrice di prosa Billie Burke. Forse non possiede il prodigioso controllo delle espressioni facciali della Gish, però sa muovere il corpo con maggiore grazia (spesso, quando deve affrontare qualche giravolta di danza, Lillian Gish appare piuttosto impacciata, mentre Mae Marsh appare del tutto naturale). Ma il talento della Marsh, più che sull'espressività, sta nella sua profonda vulnerabilità e schiettezza davanti alla macchina da presa. Nel ruolo di Bessie, l’“orfana di prima classe”, e di Teazie, l’aspirante “jazz-baby”, l'attrice trasmette un vivo desiderio di piacere e far piacere ed il bisogno di essere amata. Rivelando così la commovente innocenza di chi al mondo circostante chiede solo un po’ di attenzione e di affetto – ricevendone ancora meno: giudizi crudeli, disprezzo, abbandono.
Sarebbe fuorviante affermare che The White Rose eluda il melodramma: il tema della madre abbandonata col suo fardello di sofferenze costituisce un elemento base del melodramma familiare, e indubbiamente in questo film Griffith ne esplora al massimo grado le potenzialità morali, esprimendo ed esaltando a un tempo i segni della vera virtù. Ma Griffith stava anche faticosamente procedendo a una ridefinizione del melodramma. Nel corso di tutta la sua carriera, egli ha rielaborato l’eredità del melodramma teatrale attraverso il nuovo mezzo cinematografico; ma, per capire realmente la sua opera, occorre tener presente che questa trasformazione comportava un costante processo innovativo. L’aspetto più stimolante dei film della maturità di Griffith sta in parte nel fatto che egli vi rielabora pure il proprio contributo al cinema, sforzandosi costantemente di individuare nuovi modi per esprimere il desiderio umano, costruendo scenari di tragedia ma anche di redenzione. In The White Rose, ancor più che dagli aspetti espressivi del melodramma, Griffith cerca di liberarsi del cliché manicheo del “cattivo” connotato come “caduto” e in attesa di redenzione. Analogamente, il film evita di ricalcare l’“azione melodrammatica” del suo prototipo, Way Down East. A mio parere, quest’intenzione di Griffith emerge chiaramente in una delle scene chiave di The White Rose – quella in cui Teazie vaga sperduta col suo bambino nel bel mezzo di una tempesta tropicale – che è manifestamente concepita come parallela ed opposta a quanto avviene in Way Down East . Il contrasto tra le due situazioni è reso praticamente a ogni livello: il violento acquazzone notturno dell’una contrapposto al gelo invernale dell’altra; la sostanziale passività della Gish (accasciata, semisvenuta, sul banco di ghiaccio galleggiante che la sta trasportando verso la cascata) rispetto a Teazie che arranca strenuamente tra la pioggia e il fango col suo bambino in braccio; per non parlare del salvataggio di Anna da parte di David, che riunisce la coppia romantica e conclude la vicenda di Way Down East, mentre in The White Rose l’inconsapevole contiguità spaziale di Joseph e Teazie non comporta alcun salvataggio e la ragazza rimane a lottare da sola contro la furia degli elementi.
In Way Down East Griffith riprende brillantemente gli elementi scenografici tradizionali del melodramma (anzi, li arricchisce, aggiungendo al dramma originale la scena del salvataggio sul ghiaccio) e risolve le emozioni generate dalla rivelazione del tradimento subito da Anna Moore attraverso l’azione fisica del pericolo e del salvataggio, riscattando a un tempo la colpa di Anna con la sofferenza e ristabilendo, tramite l'azione di David, un’immagine eroica della mascolinità che va a compensare la mendacità di Sanderson. Con questa sequenza il film raggiunge un culmine di forte impatto drammatico, fisico ed emotivo – benché forse ideologicamente discutibile. Ma dato che la fusione in un unico personaggio della figura del seduttore e dell’innamorato non consente una semplicistica purificazione della colpa maschile attraverso un’azione fisica di eroismo, la tempesta di The White Rose descrive soltanto una traiettoria di sofferenza e ignoranza che rifiuta di sublimarle la redenzione spirituale attraverso l’eroismo fisico.
All’inizio degli anni ’20 Griffith manteneva ancora una visione utopistica sulle possibilità future della società, della religione e del cinema, che riteneva parimenti capaci di immense, addirittura millenaristiche, trasformazioni. In questo, Griffith dava voce agli ideali progressisti e addirittura radicali su cui si andava plasmando la prima generazione del XX secolo – ideali che dapprima furono spazzati via dalla carneficina tecnologica del primo conflitto mondiale e poi dallo sviluppo postbellico della civiltà dei consumi. Griffith continuò a credere nei propri ideali, che non erano mero retaggio di una sensibilità vittoriana bensì l’espressione di un modernismo utopisticamente millenarista che proclamava nuovi ruoli per la sessualità e una nuova libertà per le donne, sia pure sotto il segno di una nuova spiritualità. Per molti aspetti, e in particolare sotto il profilo politico e sociale, gli anni ’20 possono essere considerati come un periodo di reazione e polarizzazione man mano che l’attivismo politico e l’idealismo di figure quali Vachel Lindsay o Lewis W. Hine perdevano i favori delle istituzioni ufficiali ed apparivano sempre più irrilevanti alle forze progressiste dopo la rivoluzione russa. The White Rose non va visto come l’antiquato melodramma vittoriano di un regista sempre meno al passo coi tempi e ormai prossimo a perdere la sua indipendenza di cineasta, ma come un’opera che faceva intravedere un futuro già dimenticato, una visione utopica insostenibile ai più. – Tom Gunning [DWG Project 607]


 
Prog. 5
AMERICA (America)
Regia/dir.: D.W. Griffith; cast: Neil Hamilton, Erville Alderson, Carol Dempster, Charles Emmett Mack, Lionel Barrymore; 35mm, 10,420 ft., 154’ (18 fps), BFI National Film and Television Archive, London. Conservazione e stampa / Preserved and printed 1958

La versione originale di America venne depositata per il copyright e distribuita in 14 rulli, due in più di The Birth of a Nation e di Orphans of the Storm (Le due orfanelle). La presente versione è molto più corta: si tratta infatti di una copia della distribuzione inglese, con un nuovo titolo, Love and Sacrifice. L’aspra animosità della guerra di centocinquant’anni prima, già neutralizzata nella versione originale, fu ulteriormente ammorbidita per questa versione, soprattutto attraverso la modifica delle didascalie. Le nuove didascalie sottolineano i natali americani del malvagio capitano Walter Butler e l’odio degli inglesi nei confronti di questo rinnegato che tradisce a un tempo il proprio re e la neonata repubblica. In questa versione, la Rivoluzione è caratterizzata come una guerra civile, inglesi contro inglesi, fratello contro fratello. Ma anche nella versione originale, l’anglofilia di Griffith (rafforzata dalla calda accoglienza da lui ricevuta nella primavera del 1917 in occasione della prima londinese di Intolerance, dagli accordi con gli inglesi per il film di propaganda bellica che poi divenne Hearts of the World e dalle riprese di alcuni episodi di The Great Love, cui nell’estate del 1917 parteciparono come figuranti alcuni membri dell’alta società inglese) rappresentava una garanzia: la suscettibilità britannica non sarebbe stata urtata. Griffith era sicuramente al corrente della sorte capitata a Robert Goldstein, il costumista che alla vigilia dell’intervento americano nella prima guerra mondiale aveva speso i soldi guadagnati finanziando The Birth of a Nation per produrre The Spirit of ’76 (Frank Montgomery, 1917) ed era stato condannato a svariati anni di prigione per aver prodotto un film ostile nei confronti dei nostri alleati. 
La realizzazione di America giustifica appieno l’uso della parola superproduzione. Prima di tutto, c’era un soggetto all’altezza dell’uomo che aveva realizzato The Birth of a Nation, Intolerance e Orphans of the Storm. Le associazioni storiografiche, gli storici, le Figlie della Rivoluzione Americana e l’esercito statunitense offrirono collaborazione e consulenze gratuite. Dopotutto, si trattava pur sempre del regista più stimato d’America alle prese con un soggetto di estrema importanza: il retaggio della Nazione. Quattro sono gli operatori accreditati. Contrariamente a quanto era avvenuto con The Birth of a Nation, ogni passo della nuova produzione venne ampliamente pubblicizzato. E quando ciò fu possibile, gli eventi storici vennero filmati nei luoghi originali. Le sequenze principali sono: Lexington, Massachusetts, dove nasce la storia d’amore tra Nathan Holden e Nancy Montague; Williambursg, Virginia, dove l’aristocratica famiglia dei Montague riceve la visita di George Washington; il parlamento inglese, dove viene discussa la tassazione delle colonie d’America; Boston, dove la tassazione forzosa senza una rappresentanza infiamma la popolazione; l’assemblea legislativa della Virginia, dove Holden giunge come messaggero da Boston; i territori a nord di New York, dove il fratello di Virginia Montague possiede una ricca proprietà e il capitano Butler sobilla gli indiani tramando la fondazione di un nuovo impero; Boston, dove Butler incontra il generale Gage; 18 aprile 1775, Hancock e Adams riparano a Lexington per affidarsi alla protezione dei volontari; la cavalcata di Paul Revere e la resistenza del Concord Bridge; la battaglia di Bunker Hill; il Congresso delle colonie americane a Filadelfia; la firma della dichiarazione di indipendenza; a Nord i lealisti e gli indiani si riuniscono sotto il comando di Butler; Fort Esperance nella Mohawk Valley; i massacri della Cherry Valley; Butler si reca ad Ashley Court; Butler rivela i suoi progetti imperiali ai suoi fedelissimi; l’inverno a Valley Forge; Nathan, inviato in battaglia con gli uomini di Morgan, ritrova Nancy ad Ashley Court; Nathan, a cavallo, corre ad avvertire i coloni dell’arrivo di Butler e incontra di nuovo Nancy e suo padre quando arrivano i nostri a liberare il forte assediato in cui hanno trovato rifugio; Cornwallis firma la resa con Washington.
America era stato concepito come uno strumento ideale per insegnare agli scolari americani il loro retaggio storico. La reale diffusione del film in tal senso e l’eventuale efficacia che ebbe sugli studenti potrebbero costituire un interessante oggetto di studio. Quale che fosse la valenza didattica delle scene storiche ricostruite da Griffith, di sicuro avrebbero suscitato nelle scolaresche più entusiasmo di una normale, arida lezioni di storia. America rimase in distribuzione per molti anni ed ebbe svariate riedizioni. Grazie alla vendita aggiuntiva dei materiali di repertorio, il film finì col recuperare i costi produzione, ma dato che questi erano stati esorbitanti, fu mai veramente remunerativo. D’altronde, le pellicole didattiche, benché sollecitate da quanti cercavano di elevare il mezzo cinematografico e l’industria, non erano mai state molto popolari presso il grande pubblico, e men che mai potevano esserlo quando in cui il film fu distribuito, nel bel mezzo dell’Età del Jazz. Griffith aveva conquistato la totale indipendenza produttiva e il suo grande prestigio gli consentiva di ottenere tutto ciò che chiedeva, tuttavia, questa volta, le aspettative andarono deluse. 
Il film, come la lavorazione, risultò pesante. La maestria griffithiana nel personalizzare la Storia attraverso le storie individuali questa volta non funzionò. L’idillio romantico tra due esponenti di fazioni politiche contrapposte, il ribelle Nathan Holden e la lealista Nancy Montague, rasentava l’assurdo, forse anche perché né Neil Hamilton né Carol Dempster possedevano la presenza magnetica che i ruoli avrebbero richiesto. A lungo andare, la pletora di eventi chiave della Rivoluzione di cui Nathan e/o Nancy si trovano ad essere casuali testimoni diventa una coincidenza troppo inverosimile. Nathan viene spedito per ogni dove con qualche incarico ufficiale, e immancabilmente, capita in mezzo ad un evento cruciale. Carol Dempster, col suo profilo aguzzo, e in particolar modo quando indossa il cappello con le piume di struzzo e muove il capo di qua e di là osservando gli eventi con vivo interesse, sembra lei stessa un pennuto; dal canto suo, Neil Hamilton non lascia trasparire la minima emozione neanche quando deve sacrificare il suo amore per la causa generale e la protezione della donna che ama alla salvezza della popolazione. Ma qui non siamo a Casablanca (1942). Probabilmente, la piattezza della recitazione è da imputare in pari misura alla direzione di Griffith e alla limitata comunicativa di Hamilton o, forse, è anche un sintomo dell’infatuazione del regista per Carol Dempster. Che infatti ottiene la maggior parte dei primi piani, da sempre unità di misura del potere di una star. Ma la sua non è una delle indomite eroine di Griffith. Nancy Montague è infatti più che propensa a rinunciare al suo credo lealista per l’uomo che ama. La migliore interpretazione del film è innegabilmente quella di Lionel Barrymore, lo scellerato capitano Butler, che tradisce bellamente tutti quanti e atterrisce la Dempster con le sue avance lussuriose. Introducendo questo personaggio, Griffith mise da parte la Storia: i coloni di America, più che ribellarsi contro la dominazione inglese, paiono battersi contro un individuo malvagio che tradisce a un tempo la causa inglese e quella dei ribelli per realizzare le proprie ambizioni imperiali. Questa licenza procurò a America qualche rabbuffo da parte degli storici.
Griffith si rivela molto più convincente nel dirigere episodi quali la cavalcata di Paul Revere, che suscita il primo momento di genuina emozione del film – sebbene giunga a un buon terzo dall’inizio – o nella spettacolare ricostruzione delle storiche battaglie di Lexington e Concord. La sequenza che ribalta in extremis le sorti della campagna militare del Nord aggiunge ulteriore suspense alla parte finale del film. Griffith poté dispiegare sui campi di battaglia originali un gran numero di battaglioni dell’esercito ed ebbe la disponibilità di molti edifici e manufatti storici. I punti macchina, il montaggio e la scansione ritmica di queste scene di battaglia sono all’altezza della bravura di Griffith e trasmettono con grande efficacia la trascinante carica emozionale di un popolo che lotta per affrancarsi dalla tirannia. Ma, nel complesso, è difficile annoverare America tra i grandi film di Griffith. – Eileen Bowser [DWG Project 609]


 

Prog. 6
ISN’T LIFE WONDERFUL (D.W. Griffith, Inc., US 1924)
Regia/dir.: D.W. Griffith; cast: Carol Dempster, Neil Hamilton, Erville Alderson, Frank Puglia, Lupino Lane; 35mm, 9,017 or 8,888 ft., 134’ or 132’ (18 fps), The Museum of Modern Art, New York.
Didascalie in inglese / English intertitles.

Questo modesto film rappresenta una sorta di unicum negli anni ’20. Per certi aspetti, sembra un ritorno di Griffith agli “one reelers” della Biograph, per altri sembra anticipare i semidocumentari che verranno realizzati dopo la seconda guerra mondiale. Isn’t Life Wonderful fu sicuramente uno dei meno popolari fra i titoli griffithiani degli anni ’20, e la sua riscoperta avvenne solo verso la metà degli anni ’40, grazie all’apprezzamento di Jean Renoir e Roberto Rossellini, che vi riconobbero una sorta di antesignano del neorealismo. Sintomatico del mutamento del giudizio critico è il caso di Iris Barry, che nel suo libro del 1926 Let’s Go to the Movies aveva definito il film di Griffith “non solo brutto, ma noioso”. Quindici anni dopo, nella sua monografia sul regista, la studiosa si riferiva allo stesso film nei termini di “un piccolo capolavoro … una sensibile e spesso commovente pellicola filo-germanica che evoca con grande vigore la tragedia della sconfitta e della fame”. Il documentarista John Grierson, in un suo scritto del 1946 imputava l’insuccesso commerciale della pellicola alla precocità della sua denuncia sociale: “Anche il genere epico ha possibilità di sviluppo purché si esprima rudemente come in The Covered Wagon, o sentimentalmente (nei riguardi dello status quo) come in Cavalcade, o eroicamente (dinanzi alla fame) come in Nanook. Ma Dio non voglia che, come accadde in Isn’t Life Wonderful di Griffith, la fame sia nostra invece che degli Eschimesi” [John Grierson, Documentario e realtà, edizione italiana a cura di Fernaldo Di Giammatteo, Roma, Bianco e Nero, 1950, p. 75].
Isn’t Life Wonderful nasce da una risentita volontà di denuncia. Come gli era già capitato ai tempi della Biograph, Griffith prese il suo spunto dalle pagine dei giornali, in questo caso da una serie di articoli di prima pagina che riportavano la cronaca delle orribili conseguenze della recente occupazione francese della Ruhr. Oggi, quella azione militare occupa poco più di una nota a piè di pagina nella storia tedesca moderna, e in genere viene ricordata – ammesso che se ne faccia menzione – come uno degli eventi che contribuirono all’ascesa al potere di Hitler. 
All’epoca, tuttavia, l’occupazione francese fu avvertita come una svolta inquietante nelle vicende europee degli anni ’20, l’evento che di fatto pose fine all’unità degli Alleati e spinse molte persone, tra cui lo stesso Griffith, a considerare la Germania come la vittima di una pace punitiva. Al centro della querelle era la decisione del premier francese Poincaré di occupare, per costringere la Germania a pagare i debiti di guerra, la sua principale zona industriale indirizzando alla volta della Francia tutto il carbone, l’acciaio e il ferro ivi prodotti. La spogliazione di queste risorse per mano dell’esercito francese stava provocando il ristagno economico dell’intera Germania e trascinando il governo tedesco sull’orlo della disintegrazione. 
Il ritratto che emergeva dai giornali americani era quello di una nazione vittima di una guerra non dichiarata. Sulle prime pagine campeggiavano notizie di scioperi, di azioni di sabotaggio, di tumulti provocati dalla fame, di deportazioni di massa, di stallo economico. Questi reportage, uniti a un pamphlet di ventisei pagine diffuso dal governo di Weimar che documentava le atrocità commesse nella Ruhr dai soldati belgi e francesi, venivano metodicamente conservati negli archivi dello studio di Griffith. Al figlio di un soldato confederato, quei racconti di eserciti invasori e di operai perseguitati risuonavano sicuramente familiari. E le cronache di deportazioni di massa, di lavoratori massacrati dalla soldataglia non potevano certo lasciare indifferente l’uomo che aveva messo in scena atrocità analoghe nei suoi film Biograph e in Intolerance (1916). 
Ma l’elemento catalizzatore fu un libro da poco pubblicato, Defeat di Geoffrey Moss: una raccolta di sei racconti che narravano le drammatiche condizioni di vita del popolo tedesco. Moss, un ufficiale della guardia reale britannica, aveva abbandonato la carriera militare e si era dedicato alla scrittura per denunciare le ingiustizie provocate dalla politica alleata postbellica. Egli aveva già pubblicato un bestseller l’anno precedente, un romanzo intitolato Sweet Pepper che raccontava la vita di una addetta dell’ambasciata inglese nella Budapest del 1920, mentre gli Alleati smembravano l’Impero Asburgico. Lo scrittore rivolgeva ora la sua attenzione alla Germania. Ciascuno dei sei racconti di Defeat illustrava un diverso aspetto delle sofferenze del popolo tedesco sotto l’occupazione francese. Come in Sweet Pepper, Moss denunciava il crudele spettacolo di una nazione dalla solida tradizione storica e civile smembrata ed esposta alla mercé della marmaglia straniera. In Sweet Pepper, ciò che più disturbava Moss era l’indegnità di coloro cui era stato permesso di annettersi le terre ungheresi. I racconti di Defeat trasponevano il tema della lotta per la libertà nella Germania occupata, dove tali battaglie erano rese ancora più drammatiche dal crollo di quelli che Moss chiama “gli antichi credi”. 
Come Griffith sia venuto a conoscenza del libro di Moss o chi gliel’abbia suggeritonon ci è dato sapere. Ma una volta che l’ebbe scoperto, si mosse con estrema rapidità. Furono firmati contratti e scritturati attori prima ancora che il regista avesse deciso esattamente quale dei sei racconti avrebbe portato sullo schermo. 
Convocazioni lampo del cast tennero gli interpreti in sospeso fino all’ultimo: solo a poche ore dall’imbarco, gli attori seppero chi di loro sarebbe andato in Europa con Griffith e chi sarebbe stato usato al suo ritorno. L’unico punto fermo era Carol Dempster, ma nessuno sapeva ancora se l’attrice avrebbe interpretato Freya, la scaltra ballerina di varietà di “The Wrong Receipt”, Lotchen, la moglie insidiata in “The Nacht Lokal”, o Inga, la commessa di “Isn’t Life Wonderful!”. Alla fine, Griffith partì portando con sé tre attori, tre operatori e un “organizzatore generale”, contando di sviluppare il trattamento della storia durante i dieci giorni del viaggio. Chi lo vide lavorare a Berlino, dove il pretenzioso hotel Bristol gli faceva da base, rimase colpito dall’eccezionale buon umore dimostrato dal regista mentre effettuava sopralluoghi e provini ad attori tedeschi e austriaci, dirigendo prove e riprese con rimarchevole sicurezza. Dai resoconti degli attori e dei tecnici impegnati nella lavorazione del film emerge il ritratto di un Griffith affabile, instancabile e in grado di adattarsi agevolmente alle usanze locali malgrado le difficoltà della lingua. Due in particolare sono i temi ricorrenti nei ricordi dei collaboratori americani: il trascinante charme di Griffith e l’estrema povertà di Berlino. 
Nel mese di ottobre la troupe fece ritorno a Mamaroneck, dove furono costruiti dei set uguali a quelli berlinesi e furono completate le riprese. Ai primi di novembre, Griffith fu in grado di organizzare proiezioni a sorpresa di una versione del film in 14 rulli (2 ore e mezzo) a Westport e in altre località del Connecticut, cui fece seguire un’anteprima ufficiale a Montclair, nel New Jersey, e una proiezione privata per il consolato tedesco a New York. Le recensioni furono unanimemente favorevoli (“stabilisce nuovi standard di eccellenza”; “uno degli esperimenti più audaci della storia del cinema”; “potrebbe contribuire validamente a promuovere la comprensione reciproca”). Tutti i recensori concordavano nel ritenere il film troppo lungo, ma, curiosamente, non si ponevano due quesiti fondamentali: il pubblico americano era pronto ad accettare un ritratto compassionevole delle sofferenze postbelliche dei tedeschi, e il film non sarebbe apparso troppo deprimente?
Preoccupato, Griffith ridusse il film a 9 rulli e lo fece programmare in una “grindhouse” newyorchese (il Rivoli Theatre) attirando per la serata di apertura spettatori come Fritz Lang, il produttore dell’UFA Erich Pommer e l’amministratore delegato Felix Kallmann; poi aspettò che uscissero le prime recensioni. I critici di New York rimasero a un tempo ben impressionati e perplessi, commossi dai toni cupi della vicenda ma anche sconcertati da un film che poco aveva in comune con la contemporanea produzione americana. La stampa di categoria, pur entusiasta al pari dei quotidiani newyorchesi, batté, come era prevedibile, su un unico tasto. Dopo averlo definito “un piccolo racconto tetro e deprimente”, il recensore del Moving Picture World affermava: “dubitiamo seriamente che possa richiamare un pubblico di massa”; e analogo parere espresse il Moving Picture News. L’Exhibitor’s Trade Review definì il film “un vero gioiello dello schermo” ma lo dichiarò praticamente invendibile. Il coup de grâce giunse però da James R. Quirk, direttore di Photoplay, che in un suo famoso editoriale (dicembre 1924) approfittò del debutto di Isn’t Life Wonderful per attaccare lo stesso Griffith, deplorando il nuovo corso della sua carriera e esortandolo a vendere il suo studio. Il problema, secondo Photoplay, era che Griffith aveva perso ogni contatto con Hollywood; e, lontano da Hollywood, asseriva la rivista, Griffith aveva perso il contatto con la civiltà. Isn’t Life Wonderful ne era la testimonianza illustrata: “Le vostre consuetudini di vita vi hanno reso austero. Avete letteralmente perso il contatto con le cose attorno a voi. Avete costruito un muro tra voi e il mondo circostante”. – Russell Merritt [DWG Project # 610]