LES AMANTS DE L’AVENTURE / THE
ADVENTURE LOVERS (La Sept Arte / Nestor Productions, France / US, 2001)
Dir: Michel Viotte; prod: Sébastien Deganne,
La Sept Arte/Nestor Productions, con /in assoc. with CNC/PROCIREP; story: Michel le Bris; sc:
Paul Grattan; ph: Martin & Osa Johnson; ed: Bénédicte
Mallet; voices: Paul Kriwaczek, Matt Jeschenik, Stephanie Holm; mus: K
Music, Zomba, Sonimage, Koka Media; ph. archives: Martin and Osa Johnson
Safari Museum, Chanute, Kansas, California State Parks, Jack London Collection,
San Francisco Maritime Museum, American Museum of Natural History, Special
Collections, Nestor Productions; film archives: Martin and
Osa Johnson Safari Museum, Chanute, Kansas, Nestor Productions, American
Heritage Collection,
Clark Getts Collection; Video, Beta SP, 57’, bn / b/w, La Compagnie
des Indes.
Versione inglese / English narration.
Questo documentario di Michel Viotte, presentato in appendice alla
rassegna sul cinema d’espolorazione delle Giornate 2003, è composto
quasi interamente di materiale girato tra il 1912 ed il 1937 da Martin
ed Osa Johnson – materiale che regge il confronto con qualsiasi
altra pellicola di soggetto etnografico o naturalistico finora realizzato.
Johnson
(1884-1937), originario dell’Illinois, aveva iniziato la sua
carriera accompagnando Jack London nelle sue spedizioni per poi allestire
uno spettacolo
itinerante, The Snark, che ne narrava le avventure. Attratto
dal cinema, nel 1917 partì per la sua prima spedizione nei Mari
del Sud insieme alla giovane moglie Osa (1894-1953) che ebbe al fianco
in ogni sua impresa
finché non morì, nel 1937, in un incidente aereo. Insieme
i due coniugi realizzarono più di una dozzina di film d’esplorazione,
compreso il memorabile Simba, e lui scrisse anche molti libri
sull’argomento.
In seguito all’avvento del suono e, in particolare, alle critiche
sfavorevoli che accolsero il film Congorilla, il pubblico
cominciò a
raffreddarsi nei confronti dell’approccio smaccatamente spettacolare
del loro cinema. Essi rimangono, peraltro, dei pionieri nel settore
delle riprese speciali, nel campo della sponsorizzazione (George Eastman
fu tra
i loro più entusiasti finaniziatori), nell’uso dell’aereo
come strumento d’esplorazione e nella commercializzazione del
documentario. Inoltre quanto ci hanno lasciato su pellicola è un
grande tesoro che ci permette di conoscere società e tradizioni
da tempo scomparse.
Il documentario è stato presentato in Inghilterra
da Sky TV in una forma un po' ridotta e con il titolo di Search
for the Cannibal Tribe – David
Robinson
An important footnote to last year’s presentation of “Cooper,
Schoedsack and Friends”, Michel Viotte’s documentary is almost
wholly composed of footage shot by Martin and Osa Johnson between 1912
and 1937 – footage which stands comparison with any wildlife and
ethnographical film ever recorded. Illinois-born Johnson (1884-1937) began
his career accompanying Jack London on his expeditions, and subsequently
touring a show, The Snark, publicising London’s adventures. He was
soon drawn to moving pictures, and in 1917 made his first expedition to
the South Seas in company with his young wife Osa (1894-1953), who was
to remain an equal partner in all his enterprises until Johnson’s
death in a civil airliner crash in 1937. Together they made more than
a dozen films of their explorations, including most memorably Simba;
Johnson
also published many associated books. With the coming of sound and
particularly the critical reception of their film Congorilla,
the tide of opinion
turned somewhat against their style of brash showmanship. They were,
however,
remarkable pioneers in specialist filming techniques, in financing
their films by sponsorship (George Eastman was among their enthusiastic
backers),
in the use of aircraft as tools of exploration, and in commercial marketing
of documentary films. In addition, they left behind a rich treasure
of documentary records of societies and customs that have long since
disappeared.
This French documentary has been broadcast on Britain’s Sky television’s
travel channel, somewhat shortened, under the title Search for
the Cannibal Tribe. – David Robinson
LE FANTÔME D’HENRI LANGLOIS. “Gloire à celui par
qui le scandale existe.” / HENRI LANGLOIS. THE PHANTOM OF THE CINEMATHEQUE (Les Films Elémentaires / Cinemathèque Française,
F 2004)
Dir/sc: Jacques Richard; ph: Jerôme Blumberg, Jacques Richard; ed:
Fabrice Radenac; sd: François Didiot; mus: Nicolas Baby, Liam Farrell;
interviewees: Henri Alekan, Jean Michel Arnold, Christian Auboire, Claude
Berri, Freddy Buache, Pierre Cardin, Claude Chabrol, Jacques Champreux,
Odile Chapel, Henri Chapier, Michel Ciment, Daniel Cohn Bendit, Cyril Collard,
Hervé de Luze, Sybille de Luze, Jean Diard, Jean Douchet, Max Douy,
Zahra Farzaneh, Marie France, Georges Franju, Alain Gabet, Farohk Gaffary,
Philippe Garrel, Noëlle Giret, Jean Luc Godard, Georges Goldfayn,
Jean Gonnet, Romain Goupil, Alfred Hitchcock, Robert Hossein, Henri Hudrisier,
Léone Jaffin, Marie Josée Jeannet, André S. Labarthe,
Jean Louis Langlois, Maurice Lemaître, Jean Pierre Léaud,
Renée & Lucie Lichtig, Serge Losique, Madeleine Malthête
Méliès, Bernard Martinand, Frédéric Mitterrand,
Pierre Moinot, Maud Molyneux, Glenn Myrent, Jean Narboni, Luc Passerau
Supervielle, Olivier Petitjean, Pierre Philippe, Maurice Pialat, Francine
Pilot, Jacques Robiolles, Eric Rohmer, Jean Rouch, Ambroise Roux, Ewa Rudling,
Jacques Salom, Daniel Schmidt, Werner Schroeter, Nicolas Seydoux, Simone
Signoret, Jean Charles Tacchella, Max Tessier, Serge Toubiana, François
Truffaut, Jean Tulard, Jack Valenti, Luce Vigo, Michel Warren; Digital
video, 210’, bn e colore / b/w & color, sonoro / sound, Les Films
Elémentaires.
Versione francese, con sottotitoli in inglese. / French dialogue & narration,
English subtitles.
Henri Langlois è una figura leggendaria, uno dei padri fondatori
dell’archivio cinematografico ideale ed un grande collezionista di
film, anche se i suoi metodi poco ortodossi scandalizzarono spesso gli
archivisti più conservatori. Oggi gran parte della grande eredità da
lui trasmessa alla cultura francese è andata perduta. Le sue collezioni
di documenti cartacei sono andate in buona parte distrutte nel grande incendio
della BiFi del 2002; la CNC e la Cinémathèque Française – la
creatura di Langlois – hanno abbandonato in modo palese l’idea
di una riapertura del Musée Henri Langlois, un tempo il maggior
museo cinematografico del mondo. Jacques Richard, un cineasta che iniziò la
sua carriera a 20 anni grazie all’incoraggiamento dello stesso Langlois,
ha realizzato quest’epico documentario sull’uomo, i suoi
successi ed il suo tradimento.
“
Non è stato facile evocare il fantasma del fondatore della Cinémathèque
Française e del Musée du Cinéma. Sono stati sette
anni di duro lavoro. Il mio film è il ritratto della vita di un
uomo che coincide con i primi 40 anni, dal 1936 al 1976, della vita della
Cinémathèque. Ho evitato di proposito di trattare il periodo ‘post-Langlois,’ perché l’argomento
del film non era un’agiografia, bensì un tributo.
“
Qui ci sono le verruche di Langlois e tutto il resto, perché dopo
tutto sono parte di lui. I suoi fallimenti sono intrecciati ai suoi
successi. Si hanno i fallimenti che si meritano.
“
L’attività di cineasta di Langlois consisteva dei film degli
altri. Ebbe infatti il merito di preservare tutti i film su cui poté mettere
le mani. Tutti i film erano per lui di uguale importanza, al di là di
ogni giudizio dei contemporanei.
“
Dalla sua morte in poi sono spuntate molte ‘false leggende,’ e
molte enciclopedie lo ricordano come un ‘genio disorganizzato e disordinato.’ Grazie
a testimonianze oculari irrefutabili, questo film dimostra il contrario:
Langlois era un visionario, un cineasta dal talento di architetto, a cui
lo stato non ha mai concesso mezzi finanziari adeguati a preservare quello
che è oggi uno dei maggiori archivi cinematografici del mondo.
Ci ha anche lasciato un museo di cinema unico nel suo genere.
“
Oltre il ritratto ‘iper-realista’ di un uomo, The Phantom
of the Cinémathèque è anche una storia del cinema ed
un’introduzione alla settima arte a beneficio delle generazioni più giovani.
Langlois amava definire il cinema come la grande forma d’arte
popolare.
“
Ho dato alla luce questo film come un pittore farebbe con la tela, usando
piccole pennellate successive, frugando in tutti gli archivi disponibili,
spesso dimenticati o nascosti, per portare in vita, un po’ alla volta,
i tratti originali del modello. Ringrazio a questo proposito l’INA
[Institut National de l’Audiovisuel], senza il cui supporto ed
entusiasmo questo film non sarebbe mai esistito.
“
Ho scelto uno stile musicale più contemporaneo, per non imprigionare
Langlois nell’immagine vecchio stile di un pianista e relativo piano,
ma per evocare, al contrario, la giovinezza, la sua prima priorità.
Questo documentario è stato concepito come un film di fiction, perché funziona
proprio come la fiction, con le scene che scorrono dall’una all’altra,
nuovi sviluppi, momenti umoristici, un certo senso d’ingiustizia,
soprattutto perché Langlois vi recita come un eroe avventuroso.
“
Ecco perché Phantom dovrebbe dare l’idea di stare trascorrendo
tre ore e mezza con Henri Langlois, condividendo la sua felicità e
la sua sofferenza. La gente dovrebbe tornare a casa con una duratura memoria
emotiva che non dimenticherà facilmente.
“
La saga di Henri Langlois è la storia di un destino unico.” – Jacques
Richard
Henri Langlois is a legend, as one of the founding fathers of
the film archive ideal and the greatest of all film collectors, even
though
his unorthodox methods often scandalised more conservative archivists.
Today
much of his great legacy to French culture has been dissipated. His
collections of paper documents were largely destroyed in the great
BiFi conflagration
of 2002; and the CNC and the Cinémathèque Française – Langlois’ own
creation – have explicitly abandoned the idea of reopening the Musée
Henri Langlois, once the greatest film museum in the world. Jacques
Richard, a filmmaker who began his career at 20 with the personal
encouragement of Langlois himself, has made this epic documentary
record of the man,
his achievement, and his betrayal.
“
It wasn’t easy conjuring up the ghost of the founder of the Cinémathèque
Française and the Musée du Cinéma. Seven years of
hard work. My film is a portrait of a man’s life that coincides with
the first 40 years, from 1936 to 1976, of the Cinémathèque’s
existence. I voluntarily avoided discussing the ‘After Langlois’ period
since it wasn’t the subject of the film, which is not a hagiography,
but rather a richly rewarding tribute.
“ This is Langlois warts and all, since they are, after all, part of the
man. His faults are intertwined with his successes. One has the faults
that one deserves.
“
Langlois was a filmmaker whose work consisted of other people’s
films. He had the merit to conserve all the films he could lay his
hands on. All
films were of equal importance to him, way beyond any contemporary
evaluation.
“
Lots of ‘false legends’ have sprouted up since his death, and
many dictionaries evoke him as a ‘disorganized and disorderly genius’.
Thanks to irrefutable eyewitness accounts, the film proves the contrary:
Langlois was a visionary, a filmmaker with the talent of an architect,
to whom the state never gave enough financial means to preserve what
is today one of the most important film archives in the world. He
also left
us a unique cinema museum.
“
Beyond the ‘hyper-realist’ portrait of a man, The
Phantom of the Cinémathèque is as well a history
of film and an initiation into the Seventh Art for younger generations.
Langlois
loved to define
the Cinema as the Great Popular Art form.
“
I gave birth to this film like a painter does with a canvas, using successive
small brush strokes, sifting through all the filmed archives available,
often long forgotten or unseen, to bring alive little by little the model’s
original traits. I thank the INA [Institut National de l’Audiovisuel],
without whose support and enthusiasm this film would never exist.
“ I chose a more contemporary style of music, so as not to imprison Langlois
in the old fashioned image of a player-piano, but on the contrary
to evoke youth, since that was his first priority. This documentary was conceived
as a fictional film, because it works like fiction, with scenes evolving
from one another, new developments, humorous moments, a sense of
injustice,
but especially due to Langlois acting in it as an adventure hero.
“ For this Phantom should give the feeling of spending three-and-a-half
hours with Henri Langlois, sharing in his happiness and anguish. People should
return home with a tenacious emotional memory they will not easily
forget.
“
Henri Langlois’ saga is the story of a unique destiny.” – Jacques
Richard
FRIENDSHIP IS THE HARBOUR OF JOY (Peter Wells, NZ 2004)
Dir/ph: Peter Wells; ed: Malcolm Clarke; cast: Jonathan Dennis, Witarina
Harris; Video (Digibeta), 40’, Peter Wells (northe@xtra.co.nz). Funded
by Creative New Zealand & The New Zealand Film Commission.
Versione inglese / English dialogue and subtitles.
Ad un primo livello, Friendship Is the Harbour of Joy è una videocassetta,
che però si muove rapidamente oltre il linguaggio proprio dei
video per gettare uno sguardo su una situazione straordinaria.
Un uomo men che cinquantenne sta morendo, circondato dagli amici,
un’amica
in particolare: un’anziana signora Maori che aveva incantato le macchine
da presa 70 anni prima, in un film muto girato dalla Universal Studios
a Rotorua, sotto diversi titoli quali Under the Southern Cross e, man mano
che il bisogno disperato di pubblico cresceva, The Devil’s Pit.
A più di 90 anni di età, Witarina Harris non ha affatto perduto
la sua capacità d’incantare. Che sieda semplicemente a leggere
una copia del Reader’s Digest, o che canti seguendo una registrazione
del Ngati Poneke Young Maori Club fatta negli anni Quaranta, evoca ancora
l’immagine imponente e priva d’imbarazzi di una kuia– un’anziana,
rispettata, signora – al capezzale di un “figlio” amato.
Il “figlio,” peraltro, non è imparentato con lei; è un
Pakeha (un europeo, un bianco). Si tratta di Jonathan Dennis, una personalità notevolmente
creativa nell’ambito della preservazione dei film. In Friendship Jonathan continua la sua esistenza di giornalista radiofonico (del
controverso, arguto Film Show), che cammina pesantemente per la sua
casa di legno
aiutandosi con il bastone. (I bastoni sono qualcosa che ora Witarina
e Jonathan hanno
in comune.)
In un’intervista radiofonica registrata con Elizabeth Alley alcuni
mesi prima della scomparsa, Jonathan parla del suo lavoro pionieristico
di organizzazione di un archivio cinematografico in Nuova Zelanda.
Forse la parte più provocatoria del documentario si ha quando parla
in modo sobrio, eppure onesto, in modo quasi disarmante, del cancro che
lo ucciderà, meditando sulla sua crescita di essere umano in questo
momento così difficile e sul sostegno degli amici, la forza
motrice della wairua, o ricchezza spirituale.
Mentre la macchina fruga nella sua camera, spostandosi tra oggetti
che al tempo stesso esprimono la vivace personalità di Jonathan ed anticipano
inconsapevolmente la sua dipartita imminente, anche noi sembriamo spostarci
nello spirito di una persona che ha immaginato la propria morte per poi
passare oltre. Il film mostra Jonathan attorniato dagli amici, compresa
la sua amata kuia, che rimarrà con lui fino alla fine.
Friendship è anche un omaggio al cinema muto, non solo perché include
raro materiale dal film muto del 1929 Under the Southern Cross, di Witarina
(comprese alcune affascinanti immagini del ciak), ma anche per il modo
in cui il documentario è concepito e girato, come un semplice montaggio
di suoni e immagini, quasi alla Bresson. In un’inquadratura indimenticabile,
Jonathan guarda direttamente in macchina: un’immagine intensa anche
se provocatoria, un uomo in procinto di andarsene. – Peter Wells
On one level, Friendship Is the Harbour of Joy is
a home video. But while Friendship utilises the language of the
home video, it
swiftly
moves beyond
it, to provide an eye on an extraordinary situation.
A man in his late 40s is dying. He is surrounded by friends, but
one friend in particular. She is an old Maori lady, who charmed
cinema cameras 70
years earlier. This was in a silent film, shot by Universal Studios
in Rotorua, called variously Under the Southern Cross and, as they
grew
more desperate to find an audience, The Devil’s Pit.
Now in her 90s, Witarina Harris has lost none of her ability to
charm. Whether simply sitting in a room reading a copy of Reader’s
Digest, or singing along to a CD recording of the Ngati Poneke
Young Maori
Club in the 1940s, she provides compelling and unself-conscious
imagery of
a
kuia – honoured old lady – at the bedside of a “son” whom
she loves.
The “son”, however, is not related to her – he
is Pakeha (a European, or white person). He is Jonathan
Dennis, a remarkably
creative
individual in the area of film conservation. In Friendship,
Jonathan continues his life as a broadcaster (of the controversial
and witty
Film Show on
National Radio), clumping about the wooden house on his walking
stick. (Walking sticks are now something Witarina and Jonathan
share in common.)
In a questing radio interview recorded with Elizabeth Alley a few
months before his death, Jonathan talks about his pioneering work
setting up a
film archive for New Zealand.
Perhaps the most challenging part of this documentary is when he
talks
austerely, yet with an almost devastating honesty, about the cancer
which will kill him. He meditates on his growth as a human being
during this
difficult time, and the support he gets from his friends – the
guiding force of wairua, spiritual richness.
As the camera roves around his bedroom, finding and then moving
on from objects which both express Jonathan’s flamboyant
personality and
unconsciously intimate his coming departure from this world, we
seem to move into the spirit of someone who has contemplated and
even
moved beyond
his own death. The film shows Jonathan surrounded by friends – including
his beloved kuia, who stays with him to the last.
Friendship pays homage to silent film. It does this not
only by including rarely-seen footage from Witarina’s 1929
silent film Under the Southern Cross (complete with fascinating
clapperboard shots), but also by the way
the documentary is conceived and shot, as a simple, almost Bressonian
montage of sound and image. In one haunting shot, Jonathan looks
directly into
the camera: it is a poignant if challenging image, of a man about
to disappear. – Peter
Wells
GIANNI COMENCINI – LUNGA VITA AL CINEMA (Provincia di Milano
/ Anni Luce, I 2004)
Dir/sc: Paolo Lipari; interviewees: Luigi Boledi
(responsabile archivio film / senior archivisti), Matteo Pavesi
(conservatore / curator), Roberto Della Torre (archivista
/ archivist,
webmaster),
Antonio Pellicani (accoglienza), Enrico Nosei (direttore della
programmazione / director of programming), Marco Bruschi
(proiezionista / projectionist),
Dritan Doci (proiezionista
/ projectionist), Daniela Currò (stagista / intern),
Fulvio Lombardi (aiuto archivista / assistant archivist), Luisa
Comencini (segretario
generale relazioni esterne / Secretary General for external
relations),
Lorena Iori (ufficio stampa / press officer), Gianni Comencini
(Presidente Fondazione Cineteca Italiana di Milano); mus:
Francesca Badalini, piano
(brani da / extracts from: Philip Glass,
String Quartet no.5, String Quartet no.4, The Light; Jimi Hendrix, “Third
Stone from the Sun”; Jean Constantin, film score, Les
400 Coups (1959); Alessandro Cicognini, film score, Due
soldi di speranza (1952); M. Ranauro,
Tema no.1); Video, Beta SP, 25’, sonoro / sound, Fondazione
Cineteca Italiana.
Versione italiana / Italian dialogue and narration, no subtitles.
La passione per il cinema trova in Gianni Comencini un’espressione
così piena e vitale da farne un sicuro protagonista della storia
milanese del ‘900 nonché un punto di riferimento culturale
anche e soprattutto per le generazioni di domani.
Presidente della Fondazione Cineteca Italiana di Milano, Gianni
Comencini continua a dedicare la sua straordinaria energia alla
salvaguardia
e alla valorizzazione del patrimonio filmico del passato in una
prospettiva dinamica
e sempre creativa.
Il documentario che la Provincia di Milano ha voluto dedicargli
per la serie Gente di Milano è diretta testimonianza di questo suo inarrestabile
impegno. In Gianni Comencini – Lunga vita al cinema, scritto
e diretto da Paolo Lipari, emerge la figura di uno studioso di grande
spessore
intellettuale
ma anche quella di un curioso, giovanilissimo spettatore, ancora pronto
a lasciarsi conquistare dal fascino della stessa cabina di proiezione.
Il video ci propone un ritratto di Gianni Comencini particolarmente
mobile e vario in sintonia con lo stesso stile di vita del soggetto
protagonista.
Dall’archivio con i vecchi film alla modernissima sala Oberdan, dalla
nuova sede della Cineteca al “rifugio” valtellinese, l’obiettivo
ne segue gli spostamenti con incuriosita partecipazione. La testimonianza
dello stesso Gianni Comencini, raccolta in modo informale nel corso di
una amichevole chiacchierata, rappresenta un preziosissimo contributo nella
definizione di un ritratto non solo personale: lo scenario si allarga a
spunti più ampi quali il ruolo avventuroso e un po’ ingrato
di ogni cinetecario, il problematico destino della pellicola nell’era
dell’usa e getta, il peso internazionale della cineteca milanese
e il suo legame storico con figure quali Langlois, Hitchcock, Frank
Capra.
Ad arricchire il documentario intervengono veloci omaggi ad alcuni
dei tanti film salvati dalla Cineteca di Milano e le affettuose
testimonianze di chi condivide oggi la fatica di Gianni Comencini:
la giovanissima
squadra della Fondazione Cineteca Italiana di Milano, garanzia
di continuità di
un lavoro indispensabile per la sopravvivenza della settima arte.
Paolo Lipari è autore di numerosi documentari e cortometraggi
premiati in vari festival. Per la Provincia di Milano ha già realizzato Set – i
luoghi di Milano nel cinema e, in collaborazione con la
Fondazione Cineteca Italiana, Due dollari al chilo,
documentario sui maceri delle pellicole cinematografiche presentato
al Festival di Venezia
e alle Giornate del 2000 e in altre importanti manifestazioni
internazionali. (Comunicato
stampa)
Gianni Comencini’s passion for cinema is so complete and vital as
to give him a distinctive place in the 20th-century history of Milan, even
though its point of cultural reference is also and particularly for tomorrow’s
generation.
President of the Fondazione Cineteca Italiana di Milano, Gianni
Comencini continues to devote his remarkable energy to the safeguarding
and
appreciation of the cinema patrimony of the past, in a dynamic
and always creative perspective.
The documentary which the Provincia di Milano has chosen to dedicate
to him in the series Gente di Milano (People of Milan)
is testimony to this
unstoppable commitment. Gianni Comencini – Lunga vita
al cinema (Gianni
Comencini – Long Live Cinema), written and directed by
Paolo Lipari, reveals a scholar of great intellectual stature,
but also a
curious,
very youthful spectator, still ready to allow himself to be conquered
by the
fascination of the projection booth itself.
The film offers a portrait of Gianni Comencini particularly mobile
and varied, in tune with the character of its subject. From the
archive with
its ancient films to the super-modern Oberdan screening room,
from the new premises of the Cineteca to his mountain hideaway
in the
Valtellina,
the camera follows his movements with inquisitive participation.
The testimony of Gianni Comencini himself, gathered informally
in the course of a friendly
chat, contributes to the definition of a portrait that is not
only personal: the scenario extends to wider themes, like the
adventurous
and often thankless
role of every archivist, the problematic destiny of film in the
period of its use and obsolescence, the international status
of the Milan
Cineteca and its historical links with such figures as Langlois,
Hitchcock, and
Frank Capra.
The documentary is enriched by a rapid homage to some of the
numerous films saved by the Cineteca of Milan, and the affectionate
testimony
of those
who today share the labour of Gianni Comencini, the very young
team of the Fondazione Cineteca Italiana di Milano, assuring
the continuity
of
an effort that is indispensable to the survival of the Seventh
Art.
Director Paolo Lipari has won many prizes at international festivals
with his documentaries and short films. For the Provincia di
Milano he has previously
made Set – i luoghi di Milano nel cinema (Set – Milan’s
Cinema Locations), and, in collaboration with the Fondazione
Cineteca Italiana,
Due dollari al chilo (Two Dollars a Kilo), a documentary
about the recycling of old films, presented at the Venice Film
Festival and the Giornate del
Cinema Muto in 2000. – (Press release)
L’HOMME
AU CIGARE / THE MAN WITH A CIGAR (Rattlesnake
Pictures, LU 2003)
Dir/prod/sc: Andy Bausch; exec. prod: Brigitte Kerger; ph:
Klaus Peter Weber; ed: Misch Bervard; mus: Serge Tonnar; cast:
Bertrand
Tavernier,
Carl Davis, Anise Junck, Claude Frisoni, Jean Defrang, Joy
Hoffmann, Nico Simon, Marc Scheffen, Colette Flesch, Jean-Pierre
Thilges,
Ody Roos, Uli
Jung, Charles Flammang, Jempi Sontag, Robinson Savary; DVD,
73’,
bn & colore / b/w & color, sonoro / sound, Édition Cinémathèque
Ville de Luxembourg. Produced with the support of Le Fonds National de
Soutien à la Production Audiovisuelle e / and La Cinémathèque
Municipale de Luxembourg.
Dialoghi in inglese e lussemburghese, con sottotitoli
inglese e francese / English & Luxembourgish dialogue, English & French
subtitles.
Followed by two films by Fred Junck:
TOPLESS DANCER (1970)
Dir: Fred Junck; prod: Charles Flammang; mus: Guy Theisen;
unreleased work print, DVD, 9’, colore / color.
Versione inglese / English dialogue, no subtitles.
L’EUROPE EN MARCHE. HOMMAGE À ROBERT SCHUMAN (1972)
Dir: Fred Junck; prod: Charles Flammang, Video Luxembourg;
DVD, 15’,
bn e colore / b/w & color.
Versione francese / French dialogue, no subtitles.
Fred Junck (1942-1996) non era certo il tipo d’uomo che passava inosservato.
Preceduto dal cappello di feltro, dal sigaro e da una reputazione da cattivo,
era una personalità. Così, è normale che ad un cineasta
sia venuta l’idea di fare un film sul fondatore e direttore della
Cinémathèque Municipale de Luxembourg.
Uscito in DVD nel 2003, il documentario di Andy Bausch, come
ogni DVD che si rispetti, è ricco di extra: due interviste
(a Bertrand Tavernier ed a Carl Davis) e due film girati dallo
stesso Fred Junck
(Topless Dancer,
del 1970, incompleto ed inedito, ed il famoso documentario
del 1972 Europe en marche).
Ritratto dell’“ultimo uomo-cineteca” (come lo ha definito
João Bénard Da Costa), il documentario di Bausch si basa
soprattutto sulle testimonianze di collaboratori, amici, conoscenti e perfino
nemici dell’uomo dal sigaro. Come nota il critico Jean-Pierre Thilges,
Fred aveva “creato da sé il suo personaggio,” un misto
di Orson Welles, Sam Fuller, Harry Cohn e Sam Spiegel, “un po’ di
bulldog,” “un che di tizzone ardente,” come lo descrivono
altri testimoni. Senza dubbio è proprio la determinazione,
da parte di Junck, di costruirsi un personaggio che giustifica
il periodico
ricorso
del documentarista alla fiction, tramite una controfigura silenziosa.
Collezionista più che conservatore di cineteca, cinefilo bulimico,
autentico prodotto della cinefilia anni Sessanta oltre che ammiratore senza
riserve di Fritz Lang, Raoul Walsh, Joseph Mankiewicz ed Alfred Hitchcock,
Fred Junck si costruì una vita interamente delimitata dal cinema:
recitava e dirigeva se stesso, fino al momento stesso del confronto con
la morte, come sembra volerci dire la testimonianza della moglie e degli
amici. Ne emerge un personaggio mitologico, scaturito da un’intensa
frequentazione del cinema. In un certo senso, il film di Andy
Bausch alimenta questa mitologia, graffiandone appena la superficie
en passant.
Allora,
chi era Fred Junck? Ci vorrebbe qualcuno di molto intelligente
per rispondere sulla base di questo film.
P.S. : L’Homme au cigare non è in alcun modo un film sulla
Cinémathèque Municipale de Luxembourg. Se alcuni elementi
della storia di quest’istituzione sono evocati di sfuggita, è sempre
all’ombra del suo formidabile fondatore. – Robert
Daudelin, Journal of Film Preservation (FIAF, Bruxelles), N.
67, giugno 2004
Fred Junck (1942-1996) was not the kind of man to pass
unnoticed. Heralded by his felt hat, his cigar, and his reputation
as
a bad character,
he was a personality. So it is quite normal that a cinéaste should have
the idea of making a film about the founder-director of the Cinémathèque
Municipale de Luxembourg.
Issued on DVD in 2003, Andy Bausch’s documentary, like every respectable
DVD, is complemented by extras: two interviews (Bertrand Tavernier and
Carl Davis) and two films made by Fred Junck himself (Topless
Dancer, from
1970, never finished or released; and his well-known 1972 documentary
L’Europe
en marche).
A portrait of “the last one-man cinematheque” (as João
Bénard Da Costa called him), Bausch’s documentary is principally
based on interviews with collaborators, friends, acquaintances, and even
enemies of the man with the cigar. As the critic Jean-Pierre Thilges remarks,
Fred had “created his personality”, a mixture of Orson Welles,
Sam Fuller, Harry Cohn, and Sam Spiegel, “a bit of a bulldog”, “something
of a firebrand”, as other witnesses describe him. No doubt it is
this determination of Junck’s to construct a character
for himself which justifies the author of the documentary periodically
to have
recourse to fiction, making use of a silent double.
A collector more than a cinematheque conservator, a bulemic
cinephile, a pure product of 1960s cinephilia, an unconditional
admirer
of Fritz Lang, Raoul Walsh, Joseph Mankiewicz, and Alfred Hitchcock,
Fred
Junck constructed
for himself a life entirely within the cinema: he acted, directed
himself, right up to the moment of confronting death, appearing
from the testimony
of his wife and friends as a personage from mythology, created
out of intense absorption in the cinema. Andy Bausch’s
film to an extent feeds this mythology, scarcely scratching
its surface in passing.
But
who then was
Fred Junck? It would take someone very clever to answer this
question, by the evidence of this film.
P.S.: In no way is L’Homme au cigare a film
about the Cinémathèque
Municipale de Luxembourg. If some elements of the history of the institution
are evoked in passing, it is always in the shadow of its redoubtable founder. – Robert
Daudelin, Journal of Film Preservation (FIAF, Brussels), No.
67, June 2004
OLIVE THOMAS, EVERYBODY’S SWEETHEART (Timeline Films,
US 2004)
Dir: Andi Hicks; prod/sc: Sarah Baker, Andi Hicks; exec.
prod: Hugh M. Hefner; narr: Rosanna Arquette; Digital video,
54’, sonoro / sound,
Timeline Films / Milestone Film & Video. Anteprima mondiale
/ World premiere.
Versione inglese / English narration.
All’apice del cinema muto, un’abile ed accattivante ingenua,
di nome Olive Thomas – affettuosamente ribattezzata “Ollie” – sembrava
avere una fortuna inesauribile. Nata nella città mineraria di Charleroi,
in Pennsylvania, nel 1886, era dotata di una bellezza e di uno spirito
che la portarono fino a New York, dove trovò fama e fortuna da un
giorno all’altro. Diventò la preferita degli illustratori,
la “Cocca del gruppo Condé Nast,” la mascotte dei New
York Yankees ed una delle belle delle Ziegfeld Follies. Non passò molto
tempo prima del suo passaggio al cinema, e nel giro di quattro anni si
trovò a fare circa 20 film. Jack Pickford, l’affascinante
ed instabile fratello di Mary Pickford, la conquistò e nel 1917
se la sposò. Man mano che la sua carriera decollava, però,
il suo matrimonio cadeva a pezzi. Benché fosse presto diventata
una pericolosa rivale al botteghino per la famosa cognata, Mary, gli obblighi
imposti dalla fama della giovane coppia li tennero separati per gran parte
della loro vita coniugale. Entro l’estate del 1920 Olive aveva completato,
come stella della Selznick Pictures, le riprese di due dei suoi successi,
The Flapper e Everybody’s Sweetheart, così lei e Jack decisero
di passare una “seconda luna di miele” a Parigi, ma la riconciliazione
si volse in tragedia dopo una notte di baldoria nei nightclub di Montmartre.
I pettegolezzi e le congetture si sprecarono, chiedendosi come avesse potuto
ingerire una soluzione contenente bicloruro di mercurio, un veleno mortale.
Morì, dopo 4 giorni di agonia, il 10 settembre, solo
5 giorni prima del suo venticinquesimo compleanno. Il ricordo
di lei sopravvisse
nel cuore
del suo pubblico. Olive era una splendida star, una deliziosa
ed affascinante donna/bambina nota come la prima maschietta,
la prima a fare scandalo
a Hollywood.
Questo nuovo documentario video della Timeline Films esce
su DVD a cura della Milestone Film & Video, abbinato al lungometraggio The
Flapper (1920), interamente restaurato, accompagnato dalla musica composta da Robert
Israel. – Timeline Films
In the heyday of silent films, a winsome, canny ingénue named Olive
Thomas – affectionately dubbed “Ollie” – possessed
a seemingly charmed life. Born in the coal-mining town of Charleroi, Pennsylvania,
in 1886, her beauty and spirit carried her to New York City, where she
found overnight fame and fortune. She became a favorite of illustrators,
the “Darling of the Condé Nast crowd”, the mascot of
the New York Yankees, and a Ziegfeld Follies lovely. It wasn’t
long before she made
the transition into film, and within 4 years she had made
some 20 films.
Jack Pickford, the charming and wayward brother of Mary Pickford,
won her heart, and in 1917 made her his bride. As her career
soared, her
marriage
crumbled. Although she was soon a box-office rival to his
famous sister, Mary, the demands of the young couple’s mutual stardom kept them
apart for much of their married life. By the summer of 1920 she had completed
the filming of two of her signature films, The Flapper and
Everybody’s
Sweetheart, as a major star for Selznick Pictures. She
and Jack decided on a “second honeymoon” in Paris. Reconciliation
turned to tragedy after a night of revelling in Montmartre
nightclubs. Sensational
rumors and speculation pondered how she could have ingested
a solution containing bi-chloride of mercury, a deadly poison.
She died 4 agonizing
days later, on 10 September, just 5 days short of her 25th
birthday. But her memory lingered on in the hearts of her
public. Olive was a
beautiful
star, a delightful and alluring woman/child who became known
as the first flapper, and the first Hollywood scandal.
This new video documentary by Timeline Films is being released
on DVD by Milestone Film & Video with the completely restored feature The
Flapper (1920), starring Olive Thomas, accompanied by
a Robert Israel score. – Timeline
Films press release